“Asini, oche e rabbini” di Roberta Anau
La letteratura dalla seconda guerra mondiale in poi è stata piena, giustamente e comprensibilmente, di storie scritte da esponenti della comunità ebraica incentrate sulla Shoah e le persecuzioni nazifasciste, tra deportazioni e fughe, ma ha trascurato le voci delle generazioni nate dopo la guerra, cresciute con i racconti dei sopravvissuti ma anche in cerca di una loro identità in una società che stava cambiando ad un ritmo turbinoso, influenzando anche una comunità perseguitata ma integrata socialmente fino alle leggi razziali, gelosa comunque delle sue tradizioni e peculiarità culturali.
Asini, oche e rabbini di Roberta Anau, ferrarese di nascita, trapiantata a Torino, ex docente di lettere ed ex sessantottina oggi felicemente a vivere tra agriturismo e scrittura, è una storia della generazione ebraica post bellica, ma non solo, perché sono tante le suggestioni di una storia agreste e cittadina, politica e femminista, familiare e di racconto di sé, in cui non poche persone, anche non ebree, si ritroveranno, già solo nel ritratto della famiglia e della madre Fernanda, conservatrice e trasgressiva, fagocitante ma adorabile.
La presenza della comunità ebraica c'è ed è forte, anche soltanto nel gustoso glossario di termini tra l'yiddish, il ferrarese e il piemontese, per esprimere cibo, sesso e modi di vivere, così come non si dimentica il peso su una generazione nata dopo la guerra dai sopravvissuti e come tale in cerca di una propria identità che non fosse soltanto quella di figlio/a di chi ce l'ha fatta a scampare ai campi di concentramento. Gustose anche le elucubrazioni culinarie, all'interno di una cultura che ha i suoi massimi tabù nel consumo dei cibi non kosher, ma che in realtà ha una grande inventiva, creatività e spirito di godimento riguardo a cosa mangiare, all'apparenza rigorosissima ma in realtà molto portata a concedere deroghe nella terra della mortadella.
Roberta Anau ci porta attraverso sessanta e più anni della nostra storia, di tutti, non solo di quella degli ebrei, descrivendo due città del dopoguerra allora agli antipodi, la godereccia ed umana Ferrara e la per l'autrice fredda e scostante Torino, la crescita negli anni della ricostruzione e del boom, la contestazione del Sessantotto e il disfacimento della famiglia tradizionale e dei ruoli della donna, la ricerca di una propria identità e di nuove strade, anche se poi su quell'ultima parte della vita, in cui l'autrice è stata apripista del cosiddetto downshifting cambiando lavoro e residenza, la storia glissa, magari in attesa di un seguito per raccontare gli anni di poi.
Un libro che si legge con simpatia e gusto, per scoprire o riscoprire l'ultima generazione che sognava di poter cambiare il mondo e che era sospesa tra tradizionalismo e innovazione, capace di colpi di testa ma poi di dover arrancare per star dietro alle conseguenze delle proprie scelte, come maternità giovanili e consumi a rate.
Basta sorvolare sui termini yiddish-ferraro-piemontesi salvo poi andarseli a leggere tutti insieme alla fine di questo ritratto di vita e di famiglia, con madri ingombranti e case accoglienti, microcosmi e macrocosmi, facendosi venire l'acquolina in bocca per le ricette, che oggi Roberta Anau propone nel suo agriturismo nel Canavese, ricordando questa sua famiglia patriarcale e anticonformista, che rivive nelle pagine di un libro vivo e ricco di gusto per la vita e tutto quello che porta con sé.
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