Artemisia Gentileschi, simbolo seicentesco del femminismo
In un’epoca in cui la lotta contro gli stereotipi e la violenza di genere corre veloce sui binari dei movimenti lanciati sui social, è necessario riconoscere un maggior valore alle battaglie portate avanti da chi non solo non aveva a disposizione la velocità e la visibilità offerta dalla tecnologia, ma si muoveva in spazi dichiaratamente discriminatori. Tra coloro che si fecero portavoce di questi diritti, spicca sicuramente Artemisia Gentileschi, la prima pittrice che trovò il coraggio di raffigurare artisticamente i soprusi subiti dalle donne nel Seicento. Ponendo al centro dei suoi lavori il tema della condizione femminile, l’artista sfidò le regole maschiliste dell’epoca, gettando i semi di un femminismo che a quei tempi non sapeva nemmeno di chiamarsi così. Ma di cui lei è innegabilmente unsimbolo
Per comprendere la forza di questa artista, dovete immaginare di essere a Roma nel XVII secolo. E di essere una giovane donna di grande talento, capacità riconosciute esclusivamente agli uomini. E dovete anche immaginare che qualcuno, indifferente ai pregiudizi del tempo, lo riconosca e decida di farlo conoscere agli ambienti intellettuali e artistici. Una scelta dal significato enorme perché è la sfida alle convenzioni sociali dominanti, quelle che negavano agli individui di sesso femminile qualsiasi ruolo e abilità al di fuori della casa e della famiglia. Sarà per questo che l’immagine di questa pittrice, che fa pratica nella bottega del padre, faticherà a imporsi nella vostra mente. Eppure molte donne hanno mostrato grandi doti artistiche nel corso del tempo, ma le loro esistenze sono state relegate all’ombra della narrazione storica, restando a lungo sconosciute. La Storia, che è stata diffusa, insiste nel celebrare soprattutto i pittori.
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Artemisia Gentileschi è invece la prova di quelle vite, artistiche e personali, che hanno avuto il coraggio di rompere con gli schemi imposti da una società maschilista e sessista.
Nata a Roma l’8 luglio 1593 dal pittore Orazio Gentileschi, esponente della scuola caravaggesca, e da Prudenzia Montone, Artemisia ebbe l’opportunità di frequentare ambienti intellettualmente stimolanti e di coltivare il suo straordinario talento. Sostenuta dal padre, riuscì a farsi largo in quel mondo sessista, e a soli 17 anni dipinse la sua prima opera: Susanna e i vecchioni, nella quale, senza remore, decise di raffigurare una fanciulla intenta a sfuggire alle insidie di due uomini, dopo essere stata sorpresa a fare il bagno.
Una rappresentazione forte e soprattutto innovativa per un’epoca in cui l’idea predominante della donna era quella di un individuo fragile e sottomesso, privo di alcun diritto. Allo stesso tempo, a posteriori, l’opera può essere interpretata come un presagio di ciò che dovette affrontare.
Nel 1611, infatti, Artemisia subì una violenza sessuale. Lo stupro, perpetrato dal collega e amico di famiglia, Agostino Tassi, lasciò un segno indelebile sulla sua vita personale e artistica. Nel Seicento, un episodio del genere significava una solo casa: il disonore. Nonostante fosse la vittima, la pittrice aveva impresso su di sé il marchio infamante di essere una nubile deflorata, una “macchia della vergogna” che poteva essere lavata via solo con una pratica, allora largamente diffusa: il matrimonio riparatore. Ma essendo l’aguzzino già sposato, questa soluzione fu impraticabile.
Ne seguirono pertanto vari processi durante i quali anche Artemisia fece la sua deposizione, seppur quest’ultima estorta sotto tortura, mentre le schiacciavano le dita delle mani. E se ci si ferma per un momento a riflettere, anche questo gesto messo in atto contro di lei non fu un caso: le mani erano l’espressione di ciò che le era più caro, il suo talento pittorico.
Nella primavera del 1612, il padre si rivolse alla corte papale con una supplica in cui accusava Tassi di aver violentato la figlia e la vicenda, infine, si concluse con la condanna all’esilio di Agostino. Tuttavia, quest’ultimo di fatto rimase a Roma fino all’aprile 1613, quando riuscì a far annullare la sentenza.
L’unica a subire pesantemente le conseguenze di quell’atto criminale fu Artemisia, che ne uscì non solo segnata psicologicamente, ma anche isolata – nemmeno la sua fidata amica Tuzia fu dalla sua parte – e vittima di ulteriori maldicenzee pregiudizi, tra cui l’accusa di avere numerosi amanti e rapporti incestuosi con il padre Orazio.
Dinamiche del Seicento, che però richiamano alcune dei giorni d’oggi. Perché se molti passi sono stati fatti per tutelare, anche sul piano giuridico, le vittime dei crimini sessuali, su quello culturale permangono atteggiamenti e attitudini che faticano a essere sradicati e distrutti.
Per far fronte a questa macchina del fango, il giorno dopo la fine del processo, la giovane pittrice decise di lasciare Roma e di andare a vivere a Firenze, dove sposò un artista fiorentino, Pierantonio Stiattesi, da cui ebbe due figlie.
Di certo il trasferimento, lontano dai luoghi in cui aveva subito quel terribile stupro e dagli occhi accusatori della gente, le permisero di iniziare una nuova vita. Ma i segni di quella violenza rimasero, sul suo corpo e sulla sua anima, trovando tuttavia espressione nei suoi lavori artistici.
Malgrado la grande sofferenza, Artemisia Gentileschi non ci ha infatti lasciato in eredità opere raffiguranti la donna come “vittima”, rassegnata ai soprusi; al contrario, ricorrendo a eroine bibliche, l’idea che ha fatto arrivare fino ai nostri giorni è quella di figure femminili combattive e tenaci, in grado di ribellarsi e contrastare la prepotenza maschile.
Un messaggio moderno che sfidava i canoni culturali e sociali del XVII secolo, espressione della prevaricazione degli uomini. È per questo che Artemisia Gentileschi può essere considerata l’emblema del femminismo seicentesco. Infatti, malgrado il dolore e le cicatrici derivanti da quell’atto brutale, dai processi e dagli attacchi al suo onore, trovò un modo per esprimerli e portarli alla luce, divenendo una tra le più celebri donne artiste di tutti i tempi: le sue opere sono delle vere e proprie narrazioni autobiografiche.
Ma il suo animo battagliero non si limitò a emergere nella pittura, anche la vita privata fu lo specchio del carattere indipendente e moderno. Infatti, nel 1621 lasciò il marito e fece ritorno a Roma. Inoltre si emancipò artisticamente dal padre, a cui si ispirò per creare un proprio stile, e la sua vivacità intellettiva le permise di intessere rapporti con mecenati del tempo, tra cui Cosimo II de’ Medici, oltre che di intrattenere un lungo rapporto epistolare con il nipote omonimo di Michelangelo Buonarroti, il quale le commissionò perfino una tela per celebrare il suo antenato. Infine, grazie al suo talento e alla sua determinazione, fu la prima donna a entrare nell’Accademia delle Arti del disegno.
Artemisia Gentileschi morì per un’epidemia nel 1653, a Napoli, dove si era trasferita dopo aver vissuto prima a Venezia e poi a Londra.
Di lei resta la produzione artistica – seppur di datazione poco chiara – il cui valore è inestimabile, in termini economici, culturali e anche sociali. La bellezza e il potere della pittura risiedono nella capacità di raccontare, senza tracciare parole. Colori, immagini, volti, figure che sono lo specchio di un’epoca storica, di tradizioni e regole morali, ma non solo: possono essere la narrazione di una storia personale, e delle impronte lasciate da un dolore. Una raffigurazione che, da privata, può trasformarsi nell’embrione di una lotta collettiva contro le ingiustizie vissute da una particolare categoria di persone, in un determinato tempo.
Artemisia Gentileschi è uno dei tanti esempi di cui la Storia, per molto tempo, ha ignorato l’importanza. Eppure, fu una donna capace di sfidare un mondo dominato dagli uomini, mostrando alla società un nuovo modello femminile, caratterizzato dalla forza e dalla capacità di ribellarsi a tutto ciò che è ingiusto e lesivo della dignità di una persona. La sua pittura e la sua vicenda sono la prova di quanto sia difficile individuare la nascita esatta del femminismo, perché in qualsiasi epoca ha fatto la sua comparsa, seppur sotto sembianze diverse.
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Sta a noi, oggi, saperlo individuare e comprendere che, in qualsiasi secolo, l’obiettivo è stato sempre lo stesso: restituire alle donne un ruolo paritario nella società, facendo nascere in loro la consapevolezza che a generare i cambiamenti che le riguardano solo le loro azioni.
In questo Artemisia Gentileschi può insegnarci molto, a cominciare dal riconoscerle il suo ruolo quale simbolo seicentesco del processo di emancipazione femminile.
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