Arte, potere, donne e capitani di ventura. Matteo Strukul torna in libreria
È da oggi in libreria La corona del potere (Newton Compton Editori), il secondo volume della trilogia che Matteo Strukul ha dedicato alla Saga delle sette dinastie.
Strukul è di nuovo alle prese con il romanzo storico e il XV secolo, con un’ampia riflessione sulla storia e sul potere, che però sa cogliere bene anche la bellezza prodotta dall’Italia di quel periodo, una bellezza che Strukul non vuole che vada dimenticata o, peggio ancora, perduta.
Mi sembra di poter affermare che nella sua produzione letteraria si sia ormai consolidata un’inclinazione verso il romanzo storico, declinato in varie forme. Cosa rappresenta la Storia per lei?
La nostra memoria. La nostra eredità. Scrivo romanzi che mescolano storia, avventura, storia dell’arte. La chiamerei semplicemente letteratura. I miei riferimenti sono Eco, Dumas, Vassalli, Manzoni, Bellonci, Balzac, Dumas, Shakespeare, Marlowe, Austen. Penso che sia importante avere contezza del nostro passato, della molteplicità di culture che caratterizza l’Italia. Un Paese senza memoria è un Paese sull’orlo del baratro.
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L’altro grande elemento che alimenta i suoi romanzi, almeno dalla saga dei Medici in poi, è la riflessione intorno al potere, soprattutto politico. Perché è importante porlo al centro di una narrazione? E cosa svela dell’essere umano l’analisi dei meccanismi del potere?
Il potere comporta responsabilità. Scatena anche l’avidità dell’uomo, la brama, il desiderio, corrompe gli animi fragili e può svelare la parte peggiore di noi. D’altra parte una gestione equilibrata e plurale può portare infiniti benefici alla comunità e alla convivenza, può garantire una maggior sicurezza alla collettività, una più giusta ed equa ripartizione della ricchezza. L’esercizio del potere impone delle scelte. Vanno prese secondo coscienza e cercando di garantire la massima competenza possibile nell’adozione. Quasi mai ciò è avvenuto. Porre al centro della narrazione il potere è un modo per raccontare l’essere umano in tutte le sue possibili contraddizioni e sfaccettature.
La corona del potere è la seconda puntata della Saga delle sette dinastie, che pone al centro della narrazione l’Italia del XV secolo. Cosa l’ha maggiormente colpita dell’Italia di allora?
La grande bellezza delle esperienze artistiche. La spregiudicatezza dei capitani di ventura. Il coraggio delle donne.
Lavorando su questi romanzi, cosa ha “scoperto” dell’Italia di oggi? Esiste una connessione tra come eravamo e ciò che siamo diventati? Oppure secondo lei c’è stata una frattura?
Credo che le differenze culturali fra aree siano rimaste. Pensare che più di mille anni di Repubblica di Venezia non esercitino un’influenza importante mi pare lunare. E sostenere che Firenze non fu faro del Rinascimento lo sarebbe altrettanto. E che oggi Firenze non sia consapevole di quell’eredità? Io credo che i miei amici fiorentini e toscani abbiano a cuore il proprio territorio e sappiano valorizzare molto bene l’infinita messe di opere generate da artisti come Leonardo da Vinci e Sandro Botticelli solo per citarne due fra molti. Entrambe queste esperienze rappresentano una grande ricchezza per il patrimonio culturale italiano. Se poi la domanda è: quanta consapevolezza abbiamo oggi del fatto che questa differenziazione rappresenti la chiave potenziale del nostro successo, be’ questo è un altro paio di maniche. Ma la cultura italiana è proprio questo: la splendida multiculturalità delle proprie regioni. Non vale solo per le cucine regionali. Ma oggi, purtroppo, sembra questa l’unica varietà che conta. Non appena ci ricorderemo che Antonio Vivaldi e Domenico Cimarosa sono entrambi giganti ed entrambi italiani avremo risolto i nostri problemi.
Le divisioni intestine tra i singoli Stati, signorie, città italiane che sono al centro anche di questo suo nuovo libro sembrano sopravvivere anche oggi. Pensiamo ad esempio ai contrasti, in pieno lockdown per l’emergenza Covid-19, tra governo centrale e amministrazioni regionali. Secondo lei, in questo, è rintracciabile un trait d’union con le ataviche divisioni che hanno caratterizzato la storia italiana?
Eccome. Esiste ad esempio una Scuola della Medicina dell’Università di Padova che è un’eccellenza mondiale e che è nata grazie all’intelligenza della Repubblica di Venezia che riteneva fondamentale lasciare libera l’Università Patavina di sperimentare e perseguire la conoscenza. Qui hanno insegnato Galileo e Vesalio, fra i molti. Non è un caso che il veneto Alberto Benedetti, inventore del primo Teatro Anatomico montabile e studioso della sifilide, sia stato colui che per primo ha sviluppato insieme ai veneziani misure di sicurezza e contenimento del mal francese. Riguardo le specificità delle regioni è del tutto evidente che cultura napoletana e cultura veneta siano del tutto diverse perché figlie di storie diverse. Entrambe sono preziose e insostituibili. Ed è l’insieme di queste diverse culture che rendono l’Italia la culla della civiltà. Dovremmo ricordarcelo sempre. Leggere un romanzo come questo può aiutare a comprendere i diversi percorsi antropologici che sono a fondamento di zone magnifiche come il Cilento, il Viceregno di Napoli, la Serenissima Repubblica di Venezia, Roma e lo Stato della Chiesa, il Ducato di Milano, la raffinatissima Ferrara.
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A Papa Alessandro VI (alias Rodrigo Borgia) e a Girolamo Savonarola sono dedicate alcune pagine di La corona del potere. La loro è davvero una netta contrapposizione tra bene e male? Oppure in questa visione manichea rischia di sfuggire qualcosa?
Non mi pare che i due personaggi incarnino il bene e il male nel mio romanzo. Sono figure con evidenti chiaroscuri. Il primo è un pontefice certamente intenzionato a conquistare il potere ma è anche un padre che manifesta dei dubbi e che si preoccupa di come la propria famiglia possa sopravvivere in una città ostile agli Spagnoli. Il secondo è un predicatore che nel tentare di riportare la moralità in una città troppo a lungo dominata dalla stessa famiglia finisce per fondare una discutibile repubblica teocratica che si colora di tinte assolutiste. Non fu il pontefice a scomunicare Savonarola ma suo figlio Cesare e questo fatto, per esempio, si evince con chiarezza dal romanzo. Potrei citarne altri. Quindi nessuna visione manichea.
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