Arriva “Cruel”, il nuovo thriller tutto italiano firmato da Salvo Sottile
È arrivato nelle librerie da qualche settimana Cruel, il nuovo thriller tutto italiano firmato dal giornalista Salvo Sottile. Edito da Mondadori, è stato presentato nei giorni scorsi a Foggia presso la libreria Mondadori di via Oberdan dalla giornalista Marzia Campagna.
Siamo a Roma e tutto ruota intorno alla redazione di un crime magazine di successo – «Cruel» – che diventa il fulcro dell’azione: si parte, come in ogni thriller che si rispetti, da un brutale assassinio, in questo caso ai danni di una giovane studentessa universitaria, rinvenuta in un ex ospedale psichiatrico abbandonato. L’assassino non le ha solo squarciato la gola, ma ha anche pensato bene di mettere il corpo a testa in giù per svuotarlo completamente del sangue che si è, infine, raddensato sui capelli, quasi come un macabro balsamo. Non finisce qui. Il corpo è stato seviziato con alcuni tagli che disegnano una croce rovesciata sull’addome e sul petto. Il caso viene immediatamente affidato a un commissario specializzato in questo genere di crimini, ma sulle tracce dell’evento che ha sconvolto la capitale c’è anche Mauro Colesani, redattore di «Cruel» un po’ sgangherato, declinato secondo il cliché del giornalista dai metodi poco ortodossi e dal fiuto infallibile.
Ci sono tutti gli ingredienti che Sottile “cucina” in questo romanzo al cardiopalma, con numerosi colpi di scena e uno stile che richiama i thriller americani, con una scrittura asciutta, secca, quasi chirurgica, senza concedere spazio alle emozioni, bensì al servizio di una narrazione scandita da passaggi ben definiti – quasi cinematografici – che guidano il lettore verso un finale imprevedibile.
A margine dell’incontro di Foggia, abbiamo intervistato Salvo Sottile, autore di questo nuovo e appassionante thriller tutto italiano.
Lei ha una lunga esperienza come cronista di nera: come ha avuto l’ispirazione per questo romanzo? C’è qualche evento in particolare che le ha dato lo spunto?
Per un periodo mi sono “disintossicato” dalla televisione, dopo aver condotto programmi come Quarto grado su Retequattro e Linea Gialla su La7, e ho cercato di tirare fuori tutto quello che avevo maturato in quegli anni. Ne è venuto fuori quasi un bilancio di ciò che è stato affrontare il “male” dall’esterno. È così è venuta l’idea del libro che mutuasse e riproponesse meccanismi e automatismi che ci sono all’interno di un programma televisivo, ovvero il fatto di essere attirati da ciò che non si conosce e allo stesso tempo innamorarsi di una tesi e portarla fino in fondo. Avevo in mente di scrivere una storia in cui le pedine si trasformavano in cavalli, come nel gioco degli scacchi, come in un gioco di specchi, tra realtà mistificate in illusioni: il lettore viene trascinato dentro questa storia in cui finisce per restarci fino alla fine del libro.
Il linguaggio giornalistico è diverso dallo stile narrativo, in particolare per un thriller: ha incontrato difficoltà?
La difficoltà è stata quella di scrivere questa storia corale a incastri, in modo che ogni pezzo si confondesse e poi magicamente tornasse al suo posto alla fine. Nel thriller è più che mai necessario seminare una serie di indizi lungo la strada e nel fare questo ho cercato di stare il più attento possibile perché so che i lettori di gialli sono particolarmente sensibili e si arrabbiano se tutto non torna alla fine.
Cruel ci riporta ai romanzi di ispirazione americana del genere: vengono subito in mente autori come Jeffery Deaver e Patricia Cornwell. Come ha fatto a conciliare l’ambientazione italiana con questo respiro internazionale?
Mi piacciono tantissimo gli scrittori di gialli, americani e non solo, ma ancora prima sono stato un gran lettore di Simenon e di Dostoevskij, che mi hanno sempre affascinato per la capacità di indagare l’animo umano e anche la mente dell’assassino. Con questo libro provo a raccontare dei drammi che non sono tali solo per le vittime, ma lo sono soprattutto per gli assassini, provando a ribadire il concetto che non bisogna mai fermarsi alla prima tesi.
Si è divertito?
Sì, moltissimo, ma devo ammettere che è molto faticoso.
Come ha lavorato per questo romanzo?
Mi sono molto documentato, ho studiato, cercando soprattutto di approfondire aspetti ed elementi dal punto di vista storico, perché nel romanzo ci sono dei passaggi e degli agganci a personaggi storici. Ho passato in rassegna anche tutta una serie di testi scientifici perché ho studiato le caratteristiche di alcuni reagenti chimici.
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Perché l’idea di ambientare il giallo in una redazione giornalistica? Una sorta di nemesi?
È stato piuttosto naturale, invece; ho sempre vissuto nelle redazioni e questa volta ho voluto che il pericolo fosse proprio inserito in questo contesto chiuso e limitato, anziché all’esterno come facciamo quando lavoriamo. Al netto delle gelosie e delle invidie che ci possono essere tra colleghi, come in qualsiasi ambiente di lavoro, l’elemento che fa la differenza e scompagina i giochi è il sospetto. Considero questo ultimo aspetto come una forma di autoassoluzione rispetto al passato, ma tengo a precisare che non è certamente un romanzo autobiografico.
In Italia a che punto siamo sul fronte del giornalismo investigativo? Si potrebbe fare di più?
Non credo alla funzione pedagogica del giornalismo investigativo, per come lo conosciamo oggi. È difficile che un giornalista possa da solo essere in grado di risolvere un giallo, piuttosto più facilmente può aprirne di nuovi. Quello che porta risultati è rivedere i dati delle inchieste, alle volte chiuse in fretta o pasticciate e cercare di rinvenire un bagliore di luce in questi pozzi neri dimenticati. Oggi, purtroppo, la cronaca nera è come il sale che si mette per condire tutte le cose, e la ritroviamo a tutte le ore dei palinsesti televisivi, oggi abbastanza privi di idee, e se usata male può essere abbastanza dannosa sia per le vittime sia per lo sviluppo delle indagini.
Il romanzo è dedicato, oltre alla sua famiglia, anche al capostazione Sciuto: si legge «che poi la vita è tutta una questione di treni afferrati e persi»….
Quando parlo di treni non mi riferisco a me soltanto. Il capostazione Sciuto era mio nonno e io sono cresciuto accanto a lui, in questa piccola stazione di un paesino della provincia di Palermo. Se ne è andato, purtroppo, quando ero molto piccolo e ci siamo persi una serie di occasioni per stare insieme, per discutere delle cose “da grandi”, di come vedere il mondo.
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