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Antonio Tabucchi. Un ricordo

Al momento in cui scrivo, Antonio Tabucchi è morto da poche ore, molto si è già scritto e molto ancora si scriverà, non solo in Italia e in Portogallo. Vorrei provare a ricordarlo con i primi titoli che mi son venuti in mente quando ho pensato che mi sarei seduto a buttar giù qualcosa per ricordarlo, mettendo da parte i suoi romanzi più famosi, i saggi, le traduzioni e qualche film più o meno di successo che lo ha avvicinato al grande pubblico.

Dopo Fernando Pessoa, ogni scrittore può essere scomposto nei propri eteronimi, e in questo caso, a maggior ragione, sappiamo che c’è un Tabucchi “portoghese”, per quel suo modo di rappresentare il paesaggio urbano e culturale, fisico e metafisico (nel senso letterale del termine) del Portogallo; c’è un Tabucchi lusofono, perché scrive in portoghese (Requiem), ma soprattutto trascende i confini del Portogallo e racconta, seguendo tracce di cultura lusitana, il mondo extraeuropeo, in particolare l’Asia (non solo di Notturno indiano); c’è un Tabucchi “francese”, che forse coincide con il polemista; e poi c’è ovviamente il Tabucchi toscano, o “genovese”, comunque nostrano: quello che ha narrato gli anni della prima generazione di italiani che non hanno vissuto una guerra vera, ma hanno attraversato la guerra fredda internazionale e quella tutta italica, a fuoco lento, dei conflitti sociali e del terrorismo. Se n’è parlato e se ne riparlerà. A me invece è capitato casualmente di soffermarmi su due racconti meno noti: Il rancore e le nuvole (in Piccoli equivoci senza importanza, 1985) e Le persone felici (da I volatili del Beato Angelico, 1987). Entrambi delineano una vena “minore” che potremmo definire “accademica”, non dal punto di vista formale ma da quello contenutistico. Si tratta infatti di storie ad ambientazione universitaria.

Le persone felici è un dialogo tra un anziano cattedratico e la giovane assistente che si appresta a dargli un figlio e, guarda caso, a far carriera nella stessa istituzione universitaria in cui l’uomo è già arrivato in alto. Lei è comprensibilmente entusiasta e fiduciosa. Lui, come suggerirebbe la nostra antica tradizione buffa, un burbero di buon cuore. Ha già arato il terreno, agganciando i colleghi giusti e ricattando velatamente quello con la schiena più diritta (ma sempre ricattabile). Restano memorabili i suoi consigli alla giovane professoressa: «Punto primo: devi studiare i minori, sono i minori che fanno la carriera, i maggiori li hanno già studiati tutti. [...] Punto secondo: cita tutta la bibliografia critica possibile avendo cura di discordare dagli studiosi defunti. [...] Punto terzo: niente metodologie stravaganti, che vanno di moda oggi, quelle passeranno senza lasciare traccia, vai sul solido e sul tradizionale». Non a caso è stato invitato a un congresso dove presenterà una relazione dal titolo: «Strutture e storture nei testamenti mediolatini e volgari dell’area occitanica».

Il rancore e le nuvole è un testo più ambizioso, forse uno dei più belli, per quell’arco narrativo breve ma densissimo, a suo modo romanzesco, sia pur concentrato in una quindicina di paginette. Narra la carriera universitaria di un intellettuale di umile estrazione, che agli studi tardivi, nei duri anni del dopoguerra, sacrifica un matrimonio, una figlia e le sue idee di sinistra, trovando spazio sotto l’ala protettiva di un professore fascista, noto nell’ambiente come “il Nostalgico”. In qualche modo potrebbe essere letto come il prequel di quell’altro racconto: la giovinezza del barone universitario rampante. Il primo matrimonio fallito, il concorso a cattedra, la possibilità di togliersi molti sassolini dalla scarpa, fino alla rivalsa maiuscola: la seconda giovane moglie a cui insegnare i rudimenti della carriera. «[...] una sorta di società per azioni esistenziale, questo per lui era l’amore, bastava che lei capisse. E lei capì». Un giorno, parlandone con un “addetto ai lavori”, scoprii il nome del prof. che avrebbe ispirato quella figura. Tabucchi, però, aveva saputo sorvolare sui dettagli del pettegolezzo e ne aveva fatto una maschera eterna, di quelle che all’altezza della bocca si contraggono in un ghigno.

Se per un italiano, oggi, pensare a Tabucchi e poi a Pessoa, o viceversa, è come un riflesso condizionato, ciò avviene anche perché lo scrittore pisano ha saputo sottrarre un poeta enorme, ma di una letteratura “marginale”, ai vizietti e trucchetti della saggistica specialistica orientata alla raccolta punti per lo stipendio. Lo ha fatto dall’interno di un mondo di cui conosceva bene i corridoi sdrucciolevoli che portano alle quotidiane piccole vigliaccherie intellettuali senza importanza. Più del famoso Pereira, eroe suo malgrado di un’epoca più crudele, ma anche più nitida e leggibile (e che nel 1994, come ricorda in queste ore qualche giornale, divenne simbolo dell’Italia antiberlusconiana), questo professorino così incline al compromesso con se stesso è il simbolo più potente delle trappole che ogni giorno ciascuno di noi tende alla sua scomoda libertà di parola.

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