Antonio Gramsci e l’attualità del suo pensiero. Intervista a Guido Liguori
È indubbio che la riflessione di Antonio Gramsci abbia avuto vasta eco sia in Italia sia in altri Paesi, grazie anche alla sua capacità di saper indagare la realtà con spirito critico e acume profondo.
Di questa fortuna, così come dei momenti di crisi e dei tentativi di strumentalizzazione, abbiamo parlato con Guido Liguori, docente di Storia del pensiero politico contemporaneo presso l’Università della Calabria, presidente della International Gramsci Society Italia e capo-redattore della rivista di cultura politica «Critica Marxista».
In Gramsci conteso. Interpretazioni, dibattiti e polemiche 1922-2012, definisce Gramsci «una grande figura della cultura del Novecento», «un gigante del pensiero». In che modo, Gramsci e il suo pensiero hanno influenzato il Novecento italiano sia sul piano culturale sia su quello più specificamente politico?
Per limitarci al contesto italiano, la prima influenza di Gramsci fu certamente politica: egli divenne uno dei cardini sul quale Togliatti costruì, dopo la caduta del fascismo, l’identità del Partito comunista italiano, il suo modo di essere e fare politica. In questo quadro, un’importanza particolare era affidata agli intellettuali comunisti o più vicini al partito e al rapporto con gli intellettuali che comunque era possibile influenzare. Dunque Gramsci fu immesso nella cultura italiana proprio per fornire un formidabile esempio e un rilevante bagaglio di idee agli intellettuali, per favorirne la rottura col vecchio liberalismo crociano, e la dislocazione democratica, vicina al Pci. In Gramsci stesso politica e cultura sono fortemente intrecciati, nella categoria di egemonia (l’influenza di un gruppo sociale o di un partito sulla società) l’accento cade in primo luogo sull’influenza culturale. Gli scritti gramsciani, intreccio di teoria politica e indagine culturale, erano in sé molto adatti a questo scopo e dunque Togliatti e il Pci usarono al meglio Gramsci, tenendo conto del contesto del dopoguerra e della guerra fredda, per sviluppare una politica democratica, nazionale, e un modello di partito di massa abbastanza distante dai modelli comunisti della Terza Internazionale. Gramsci ne sarebbe stato contento.
Riflettendo sulle diverse letture di Gramsci, lei ne evidenzia due in particolare: quella che si appunta su un Gramsci comunista e quella che pone l’accento su un Gramsci liberale. Quali di queste due letture, a suo avviso, è più credibile? E a quali strumentalizzazioni è stata sottoposta l’opera gramsciana in questo processo?
Gramsci è sicuramente un pensatore marxista e comunista, chi ne vuole fare un autore liberale compie un’operazione sbagliata, una strumentalizzazione senza giustificazioni. Le sue opere furono pubblicate nel dopoguerra, in una situazione già molto diversa rispetto a quella in cui egli aveva scritto dieci anni prima. Dunque i suoi eredi politici, in primo luogo Togliatti, dovettero “tradurre” le sue indicazioni, adattandole al nuovo contesto. Inevitabilmente nella prassi parte della ricchezza delle indicazioni gramsciane andò persa, ma non si può dire che i comunisti ne strumentalizzassero il pensiero. D’altra parte i suoi erano “pensieri lunghi” e in parte risultano più comprensibili e attuali oggi che in un mondo molto segnato dalla guerra fredda e dalla divisione in campi contrapposti, situazione che Gramsci non aveva potuto immaginare. Mentre aveva colto alcuni tratti di fondo del sistema capitalistico che oggi risultano più attuali che mai.
Uno dei primi, tra i suoi contemporanei, ad avvicinarsi pubblicamente a Gramsci, sebbene da posizioni diverse, fu Piero Gobetti. Cosa accomuna il giovane «rivoluzionario liberale» al comunista Gramsci?
Alla fine degli anni ’10 e all’inizio degli anni ’20 del Novecento Gramsci e Gobetti avevano in comune alcuni avversari: prima la vecchia democrazia liberale e giolittiana, in crisi e profondamente corrotta, poi il fascismo. Davano lo stesso giudizio sull’unificazione nazionale e sulla nascita dello Stato unitario, che era stata condotta tanto male da sfociare poi nel fascismo. Per Gramsci, Gobetti era un non comunista con cui si poteva instaurare un dialogo e un’alleanza. Per Gobetti, allora molto giovane, Gramsci era uno dei protagonisti della Torino operaia e rivoluzionaria, di cui sentiva il fascino perché anche egli si riteneva sì un liberale, ma nel senso di un rivoluzionario antiborghese.
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Uno dei pochi, se non l’unico, che durante il processo di Roma dedicò attenzione al Gramsci dirigente del Pcd’I fu Togliatti nell’articolo Antonio Gramsci un capo della classe operaia. Siamo nel 1927, ma fino al 1964 Togliatti ritornò più volte su Gramsci. In linea di massima, come evolsero le posizioni di Togliatti su Gramsci e perché tale rapporto può essere considerato così determinante per la storia del Partito?
L’insieme degli interventi togliattiani su Gramsci è molto ricco e articolato, li ho raccolti in un libro per i tipi di Editori Riuniti, ripubblicato anche nel 2012. Si tratta di una lettura fondamentale per comprendere Gramsci, storicizzandone la vicenda e il pensiero. In un primo tempo Togliatti cercò di proteggere Gramsci (e sé stesso e il loro Partito) attenuando i contrasti del pensiero gramsciano rispetto allo stalinismo, ma sempre riconoscendo a Gramsci il ruolo di guida dei comunisti italiani (ancora recente era la lotta contro Amadeo Bordiga, il primo segretario del Pci, intransigente, estremista e settario). Dopo la caduta del fascismo, Gramsci divenne soprattutto il grande intellettuale nazionale, che serviva (oltre a quanto già detto) anche per fondare una silenziosa originalità e autonomia rispetto al comunismo sovietico, sia pure non senza sincretismi. Dopo il 1956 si ha un recupero a tutto campo di Gramsci da parte di Togliatti: era iniziata da poco la pubblicazione degli scritti precedenti al carcere, si mette in cantiere la nuova edizione critica dei Quaderni del carcere, che uscirà nel 1975, vengono fatti conoscere anche i dissensi che vi erano stati tra Gramsci e Togliatti. È la stagione più vitale della lettura togliattiana di Gramsci, che si conclude con un’indicazione straordinaria: Gramsci, scrive Togliatti nel 1964, è un pensatore tanto grande che il suo lascito va al di là dello stesso Partito comunista e della vicenda del comunismo del suo tempo.
«Come uomo di pensiero egli fu dei nostri», così Benedetto Croce recensendo le Lettere dal carcere, nel 1947. Fino a che punto questa posizione crociana è condivisibile, anche tenendo conto delle osservazioni gramsciane sulla filosofia di Croce?
Quella di Croce fu una posizione strumentale, un tentativo di annettere al crocianesimo anche il pensiero di Gramsci, sebbene in essa influì la grandezza morale che traspare dalle Lettere (in cui tuttavia vi sono pure giudizi storico-filosofici di dialogo con Croce, ma di dialogo critico). Croce diceva che Gramsci era un grande, anche se comunista, per dire che i comunisti che aveva di fronte concretamente nel dopoguerra erano poca cosa… L’anno successivo il filosofo neoidealista dovette fare rapidamente marcia indietro, ammettendo che Gramsci era un marxista, sia pure originale, dunque un avversario teorico e politico. Era infatti iniziata la pubblicazione dei Quaderni, da cui emergeva inequivocabilmente la dura critica a cui Croce e il suo pensiero filosofico politico erano sottoposti da Gramsci.
Se gli anni tra il 1970 e il 1975 rappresentano quella che lei definisce «l’età dell’oro» della fortuna del pensiero gramsciano, il 1977 è l’anno della crisi. Tale andamento è dovuto solo a una diversificazione degli interessi oppure va di pari passo con i cambiamenti in atto nel Partito comunista?
Incide molto l’andamento della vicenda politica. Ad esempio la grande crescita del Pci negli anni Settanta ma poi anche la nuova polemica anticomunista e antigramsciana del Partito socialista ormai guidato da Craxi, una polemica molto strumentale, ma molto vigorosa. Ma attenzione: il 1977, 40° della morte di Gramsci, con tutte le relative celebrazioni, convegni, libri e articoli, è un momento alto della riflessione su Gramsci. La crisi inizia dopo, soprattutto negli anni Ottanta, gli anni del “riflusso”, della crisi del Pci e del “sfortuna” del marxismo in Italia, specie dopo la morte di Berlinguer nel 1984.
Lei riconosce spesso che la fortuna di Gramsci sia cresciuta, tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, all’estero, arrivando a parlare di vera e propria mondializzazione, mentre in Italia era quasi ignorato. Quali furono le ragioni di tale offuscamento in patria?
Dopo la fine del Pci, nel 1991, i post-comunisti sembrarono privilegiare altri autori e altre filosofie, di orientamento liberaldemocratico. Tuttavia il pensiero di Gramsci era così grande che, senza le ingessature della guerra fredda, si espanse i tutti i Paesi più avanzati, influenzando moltissime discipline, come già in Italia negli anni Cinquanta e Sessanta, ma su scala maggiore. Allora anche la cultura italiana dovette tornare a fare i conti con Gramsci, non potendo ignorare il saggista italiano più diffuso (letto, tradotto, studiato) nel mondo dai tempi di Machiavelli.
Cosa resta, oggi, dell’eredità politica e intellettuale di Gramsci?
Il nostro tempo è per molti versi (non per tutti ovviamente) il tempo di Gramsci. E dunque molte sue idee-forza (egemonia, rivoluzione passiva, ecc.) sono ancora valide. Egli inoltre è un classico: il suo bagaglio di concetti forma un pensiero con cui confrontarsi anche al di là del suo tempo e del suo spazio, in situazioni storiche e geografiche molto diverse. La fortuna di Gramsci col tempo sembra crescere, non declinare. Come quella di Marx, del resto. Finite alcune esperienze storico-politiche che si rifacevano a questi pensatori in modo necessariamente parziale o addirittura distorto, emerge più che mai la grandezza della loro riflessione. Marx e Gramsci dimostrano che il pensiero marxista, se non distorto in modo economicistico, se non ridotto a “catechismo”, cioè semplificato e banalizzato, è un pensiero ancora valido per molti aspetti. E Gramsci è considerato oggi non a caso il marxista certamente più vitale e importante. Conquista nuovi territori (da poco è stato ad esempio tradotto in Cina, inizia a essere studiato nei Paesi dell’Europa dell’Est, dove non era stato molto amato durante il “socialismo reale”), il suo studio è ripreso con vigore anche le nostro Paese. Sentiremo ancora molto parlare di lui.
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