Anteprima «Nuovi Argomenti» – “Vladimir Nabokov. Il passaporto dello scrittore” di Marco Cubeddu
È uscito oggi l’ultimo numero di «Nuovi Argomenti», lo storico trimestrale culturale italiano fondato nel 1953 da Alberto Carocci e Alberto Moravia e attualmente diretto da Arnaldo Colasanti, Furio Colombo, Raffaele La Capria, Raffaele Manica, Dacia Maraini e Giorgio van Straten.
Pubblicato da Mondadori, questa nuovo s’intitola Rivoluzione! Rivoluzione!, e contiene un’ampia sezione dedicata alla Russia in occasione dei cento anni della rivoluzione d'ottobre.
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Proprio da questa sezione pubblichiamo in anteprima l’articolo di Marco Cubeddu, caporedattore della rivista:
VLADIMIR NABOKOV
IL PASSAPORTO DELLO SCRITTORE
«Sono uno scrittore americano, nato in Russia ed educato in Inghilterra». Così Vladimir Nabokov, figura fra le più rappresentative e poliedriche del Novecento letterario, passato alla storia per essere il papà di Lolita, dava conto della sua identità a partire dal suo senso d’appartenenza geografico.
In questa sintesi non c’è solo tutta l’ironia di cui trabocca la sua scrittura, o il suo amore per le contraddizioni (era un uomo capace di dichiarare che «l’aforisticismo è sintomo di arteriosclerosi» e allo stesso tempo coniare per se stesso definizioni come questa: «Penso come un genio, scrivo come un autore eminente e parlo come un bambino»). Nella diaspora geografica e culturale di Nabokov non c’è solo il gusto per i giochi, i trabocchetti e le provocazioni letterarie che seminava tanto nelle interviste che rilasciava per iscritto (raccolte nel volume Strong Opinion, in Italia edito da Adelphi col titolo Intransigenze), quanto nei numerosi romanzi pubblicati per ricordarci che l’arte, nei suoi momenti più grandi, è come la natura: favolosamente ingannevole e complicata. Dietro alla calcolata sagacia con cui un uomo elegante e poco incline al piagnisteo come lui si sentiva in dovere di schermirsi c’è, in tutto il suo tragico fulgore, lo spettacolo delle macerie del Novecento di cui Nabokov è stato diretto testimone e involontario esegeta.
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Nato nell’ultimo anno del XIX secolo, nel 1899, da un’agiata e colta famiglia russa, trascorse l’infanzia in una bellissima casa a San Pietroburgo, baloccandosi in un ambiente più anglofilo che francofilo, nonostante la sua famiglia fosse un’assidua frequentatrice della Costa Azzurra, come tutti i nobili russi in quegli anni da Belle Époque.
Di quella formazione «europea» dovrà presto servirsi. La guerra mondiale aveva armato e movimentato le masse contadine. Gli operai erano in subbuglio. Lo zar e la sua corte si dimostrarono inadeguati da ogni punto di vista. La borghesia russa non era in grado di trasformarsi in classe dirigente. E la fame aveva fatto il resto. La necessaria conseguenza, la rivoluzione bolscevica, travolse il paese, e i Nabokov dovettero emigrare. In fuga dai comunisti, il padre, riformista e liberale, venne ucciso durante un comizio da un attentatore fascista nel ’22, a Berlino, nel tentativo riuscito di salvare la vita a Miljukov (suo maestro, già ministro degli esteri del governo provvisorio, prima monarchico, poi fiancheggiatore dei golpisti bianchi, infine democratico). Il giovane Vladimir si troverà senza un soldo nella Germania degli anni Venti, mentre insieme alla moglie Véra, di origini ebraiche, tenta di farsi largo nei circoli degli intellettuali émigré. In quegli anni pubblica poesie e racconti, che scrive appoggiato a una valigia che funge da tavolo di lavoro posata sul water del minuscolo appartamento dove vive con moglie e figlio piccolo. Stoicamente, e nonostante il suo lignaggio ne avrebbe suggerito un carattere meno adattabile alle sventure della vita, mantiene la famiglia dando lezioni di boxe e di tennis, sport che aveva praticato fin da ragazzo, con apprezzabili risultati.
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L’affermarsi del nazismo lo costringe a rifugiarsi a Parigi, città straripante di esuli in cui potrebbe attendere tempi migliori. Ma il suo pellegrinaggio è destinato a continuare. L’Europa di quegli anni, sebbene oggi xenofobi furbacchioni e razzisti tonti ostentino una memoria corta come la coperta di cialtronerie con cui cercano di coprire le loro mancanze politiche, non era diversa dal Medio Oriente di oggi (con la differenza che la Siria, la Libia, l’Iraq, etc, etc sono stati disegnati dai paesi europei, e non viceversa). Un continente in subbuglio, instabile, con milioni di profughi in fuga da guerra e miseria. Fra loro, insieme a tanti anonimi disperati, anche profughi eccellenti, sopravvissuti e destinati a diventare patrimonio dell’umanità. Perduto il fratello, omosessuale, in un campo di prigionia nazista, la famiglia Nabokov dovrà lasciare anche la Francia, su cui aleggia lo spettro dell’invasione. Nella sua autobiografia, Speak, memory, l’ultimo scatto di una galleria fotografica a corredo del testo ritrae la moglie Véra e il figlioletto Dmitri a Parigi, nell’aprile del 1940. Fu scattata per il passaporto Nansen, poco prima di imbarcarsi sul transatlantico Champlain che li avrebbe condotti a New York: «…era quanto mai appagante scorgere – scrive nelle ultime righe del testo – fra gli angoli affastellati di tetti e muri, lo splendido fumaiolo di un piroscafo affacciarsi da dietro la corda del bucato…».
In America intraprenderà la carriera accademica, diventando un professore tanto leggendario quanto severo. Di quegli incantevoli anni alla Cornell ci restano le memorabili lezioni di lettura critica di grandi capolavori europei raccolte in Italia in agili volumi Garzanti. Risolto il problema del sostentamento della famiglia, non gli resta che affrontare quello più bruciante della sua scrittura: «Mi ci erano voluti circa quarant’anni per inventare la Russia e l’Europa occidentale, e ora dovevo affrontare il compito di inventare l’America. Procurarmi gli ingredienti locali che mi avrebbero consentito di instillare una modica dose di media “realtà” (una delle poche parole che non hanno alcun senso senza virgolette) nel calderone della fantasia individuale si rivelò, a cinquant’anni, un procedimento molto più difficile che nell’Europa della mia giovinezza, quando ricettività e capacità di ritenere erano al loro automatico culmine».
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Darà, come sappiamo, prova delle sue inarrivabili capacità stilistiche in inglese in diverse occasioni editoriali, prima fra tutte Lolita. Fondamentale, per la scrittura del suo capolavoro, sarà la passione per le farfalle, nata insieme a quella per la letteratura e per il gioco degli scacchi in quella luminosa infanzia russa di cui intima alla sua memoria di parlare, sforzandosi di amministrare l’equilibrio tra il virtuosismo stilistico e il profondo struggimento, in pagine memorabili. Dopo il successo, prima di ritornare definitivamente in Europa, donerà la sua collezione di farfalle al Museo di zoologia comparata dell’Università di Harvard, dove aveva lavorato per anni come entomologo: «Le etichette affisse sotto queste farfalle, recanti il luogo della cattura, saranno una manna per qualche studioso del Duemila con il gusto della biografia recondita». Con la moglie Véra, che guidava, visto che lui non aveva la patente, attraverserà in automobile gli Stati Uniti armato di retino. A Telluride, in Colorado, ad Afton, nel Wyoming, a Portal, in Arizona, ad Ashland, in Oregon, Lolita, il cui primo palpito possiamo rintracciare in diversi scritti precedenti (come ne Il dono e L’incantatore, ma altrettanti echi se ne possono rintracciare nei successivi, Fuoco pallido, Ada, L’originale di Laura) trovò finalmente la sua smagliante forma-romanzo nella provincia americana, crescendo a poco a poco la sera, o nei giorni di pioggia.
Inutile dirlo, sarà il libro della sua vita. La forma più compiuta di un tema, quello della fascinazione per la pubertà, per lo sbilanciamento effimero, quel momento di trasformazione tra l’infanzia e l’età adulta che rende la ninfetta per pochi, ineffabili mesi, una crisalide vivente, un inno al mutamento, al recondito mistero dell’identità che si interseca nella dialettica Nature vs Nurture sospeso tra ingenuità e malizia, che non si sarebbe mai trasformato in capolavoro della letteratura mondiale se Nabokov non avesse dovuto abbandonare la sua amata Russia.
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Le confessioni di un maschio bianco vedovo (come recita il sottotitolo) è un libro di un’allegria straziante, una storia puntellata di scene esilaranti, interpretate da personaggi che però, come sapremo alla fine, al momento in cui leggiamo di loro, sono già tutti morti. Lolita, nonostante debba la sua iniziale fortuna alla pruderie con cui venne accolto e tacciato di oscenità (provocando la morbosa curiosità di pseudo lettori sporcaccioni a caccia di un Cinquanta sfumature di grigio destinati a rimanere delusi) è un tragico divertissement, una partita che Nabokov gioca con le parole, i nomi, la grammatica, il tempo, la memoria, in una storia in cui niente sembra poter essere vero ma in cui tutto è verosimile.
La ricerca di un editore non sarà facile. La puritana America non è pronta a lasciarsi ritrarre come un’adolescente ammiccante e disinibita. La riservatissima Véra dovrà più volte impedire al suo sposo, che non a caso dedicherà a lei ogni libro, di buttare il manoscritto nel fuoco. Verrà pubblicato in Europa, con l’Olympia Press, un’equivoca casa editrice fondata da un individuo ancora più equivoco, Mr. Girodias, più credibile come personaggio nabokoviano che come editore. Uscirà a Parigi, ed entrerà nella sua terra natia – l’America – come fosse la sua terra d’adozione, da immigrata, rifacendo lo stesso percorso del suo autore: «Un critico americano avanzò l’ipotesi che Lolita fosse il resoconto della mia storia d’amore con la letteratura romantica. Questa elegante formula diverrebbe più esatta se si sostituissero a “letteratura romantica” le parole “lingua inglese”. Ma ora sento che la mia voce sta raggiungendo toni veramente troppo striduli. Nessuno dei miei amici americani ha letto i miei libri russi, e così ogni elogio basato su quelli inglesi non può che essere sfocato. La mia tragedia privata, che non può e non deve riguardare nessun altro, è che ho dovuto abbandonare il mio idioma naturale, la mia lingua russa così ricca, così libera, così infinitamente docile, per una marca di inglese di seconda qualità, priva di tutti quegli apparati – lo specchio ingannatore, il fondale di velluto nero, le tacite associazioni e tradizioni – che l’illusionista indigeno, con le code del frac svolazzanti, può magicamente usare per trascendere a suo modo il retaggio dei padri».
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Un conflitto linguistico, certo, ma anche identitario. Lo «scrittore americano» non può dimenticarsi di essere nato in Russia e di essersi formato nel vecchio continente: «anche se dovrebbe esser noto a tutti che io detesto i simboli e le allegorie (cosa dovuta in parte alla mia annosa faida col vudù freudiano, e in parte all’odio che nutro per le generalizzazioni escogitate da mitologi e sociologi letterari), un lettore altrimenti intelligente, dopo aver sfogliato la prima parte, descrisse Lolita come “la vecchia Europa che travia la giovane America”, mentre un altro sfogliatore ci vide “la giovane America che travia la vecchia Europa”.
Un bel guazzabuglio scoprire chi ha corrotto chi. Ma continuiamo a seguire Nabokov: «Un’altra accusa da parte di qualche lettore è che Lolita è antiamericano. Questo mi addolora molto più dell’idiota accusa di immoralità. Certe considerazioni di profondità e prospettiva (un prato nei sobborghi residenziali, un campo di montagna) mi hanno indotto a costruire un certo numero di scenari nordamericani. Mi serviva un particolare milieu stimolante, e nulla è più stimolante della volgarità filistea. Ma a proposito di volgarità filistea, non c’è differenza intrinseca tra i costumi paleartici e quelli neartici. Qualsiasi proletario di Chicago può essere borghese (nel senso flaubertiano) quanto un duca. Ho scelto i motel americani invece degli alberghi svizzeri o delle locande inglesi solo perché sto cercando di essere uno scrittore americano, e rivendico solo i diritti di cui godono gli altri scrittori americani».
È un paradosso, ma nonostante un altro libro fondamentale di Nabokov, l’ultimo scritto in russo in prima battuta, Il dono, affronti la nostalgia per la Russia prerivoluzionaria – insieme al profondo disprezzo per la Russia sovietica – l’autore non può prescindere dalla polemica sempre venata di quella fulminante sprezzatura tipicamente nabokoviana che rende digeribili anche le sue antipatie meno condivisibili (come il suo disgusto per l’opera di Dostoevskij) nei confronti dell’arte utilitaristica, realista, volta all’impegno civile, compreso quello antisovietico, alla Pasternak, o alla Solženicyn, per intenderci. Stiamo parlando di un uomo che da esule europeo meditava di arruolarsi nell’esercito dei russi bianchi (esitò troppo, e quando si risolse fu tardi, l’armata rossa di Trotsky aveva disperso il nemico) e che da cittadino americano dichiarò di orientarsi in politica estera caldeggiando «tutto quello che avrebbe potuto dare fastidio ai rossi». Eppure, per quanto la Russia sovietica, al pari della Germania nazista, gli avessero sottratto affetti e fortune, e che nella sua opera si possano rintracciare, dissimulati nel prisma delle idiosincrasie letterarie, tutta la tragedia e i fasti del Novecento che aveva attraversato, l’unica vera battaglia che combatté con ammirevole intransigenza fu quella contro l’arte sociale: «un’opera di narrativa esiste solo se mi procura quella che chiamerò francamente voluttà estetica, cioè il senso di essere in contatto, in qualche modo, in qualche luogo, con altri stati dell’essere dove l’arte (curiosità, tenerezza, bontà, estasi) è la norma».
In definitiva, il lavoro di Nabokov seguiva la sola morale di non avere nessuna morale, non portava con sé nessun insegnamento edificante. Gli sembrava una cosa interessante da fare, attraverso la scrittura, sciogliere gli enigmi che essa stessa poneva.
Dopo il successo internazionale di Lolita, amplificato dal film di Kubrick, non gli restava da sciogliere che un ultimo enigma: «Nessuno riesce a stabilire se sono uno scrittore americano di mezza età o un vecchio scrittore russo o un’anomalia internazionale e senza età».
Se la Russia prerivoluzionaria darà alla sua scrittura tonalità nostalgiche, con pagine dedicate a immersioni nelle spire della memoria involontaria di un passato che rimarrà tiepido in eterno, e se sarà l’America in cui approderà in fuga dal nazismo - sfrontata, veloce, mirabolante - a ispirare l’epica pop che renderà di massa il suo talento, è nel buen retiro scelto nell’impersonale suite elvetica al Grand Hotel di Montreaux, un luogo da cartolina, intimamente astratto, che Nabokov si sentirà finalmente a casa.
Una casa da apolide, in cui tutto è incantevole ma niente è domestico, quasi come se lo scrittore avesse deciso di vivere in bilico tra le molte vite che aveva già vissuto da esule, crisalide a sua volta di una specie indefinibile di farfalla che non gli importava di catturare.
Nabokov fu il meno sovietico e il meno antisovietico degli autori russi del suo tempo. Credo sarebbe stato disgustato da questa chiave di lettura, ma di fatto, la sua vita, travolta dalla collisione storica dello scontro fra le potenze del primo conflitto mondiale che portò alla Rivoluzione d’Ottobre, ha più di una parentela con gli ideali internazionalisti che ispirarono la presa del potere di Lenin e coi tanti esuli rivoluzionari perseguitati dalla controrivoluzione staliniana. Se non suonasse troppo hippy da scrivere, si potrebbe sostenere che Nabokov, con la sua obliqua biografia sarebbe un affascinantissimo testimonial dell’immigrazione, il simbolo di quanto siano inattuali e umanamente controproducenti i confini. In fin dei conti coniò, sempre involontariamente, anche lo slogan perfetto (in barba alla sua lotta con l’aforisticismo) per una campagna di sensibilizzazione sociale che dovrebbe valere per tutti gli immigrati: «l’unico passaporto di uno scrittore è la sua arte».
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BONUS TRACK
Ad un intervistatore che, parlando di cinema, gli chiese quali scene del passato sarebbe stato bello poter filmare, Nabokov rispose: «Shakespeare nella parte dello Spettro del Re. La decapitazione di Luigi XVI, con i tamburi che coprono i suoi discorsi dal patibolo. Herman Melville a colazione, mentre dà una sardina al suo gatto. Il matrimonio di Poe. I picnic di Lewis Carrol. I Russi che se ne vanno dall’Alaska, felici dell’affare. Primo piano di una foca che applaude».
NOTA
Questo ritratto è stato realizzato grazie al contributo di testi, filmati, appunti di varia natura, copia-incolla da articoli online meritevoli o imbarazzanti, furti compiuti in passato e presto dimenticati, autoplagi e autocitazioni dettate dall’irricevibile autocompiacimento di chi lo ha scritto mentre lo scriveva. Dove virgolettato, dovrebbe trattarsi più o meno della versione fedele della traduzione italiana di Strong Opinion. Visto che questo non è un testo accademico e non siamo nel 1917, ma nel 2017, per tutto il resto c’è Google.
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