“Annette, un poema eroico”, una donna eccezionale raccontata da Anne Weber
Annette, un poema eroico (Mondadori, 2021 – traduzione di Agnese Grieco) è il primo libro tradotto in italiano di Annette Weber, scrittrice nata in Germania ma residente da molti anni in Francia, che ha pubblicato diversi romanzi in entrambi i Paesi.
Scritto sotto forma di ballata in versi liberi, racconta la vita straordinaria della quasi centenaria Annette Beaumanoir, nata in Bretagna, che dopo essere entrata giovanissima nella Resistenza e aver salvato la vita di due ragazzi ebrei, motivo per cui è entrata nell’elenco dei Giusti tra le Nazioni, ha partecipato al movimento di liberazione algerino durante la sanguinosa guerra per ottenere l’indipendenza dalla Francia. Per questo motivo Annette è stata anche incarcerata e ha finito per perdere i contatti con la sua famiglia, in particolare con i figli ancora bambini che sono cresciuti lontano da lei. Eroina controcorrente, restia a seguire ciecamente le indicazioni dei superiori pur appartenendo al Partito Comunista e schierata contro il suo stesso Paese in una guerra coloniale da lei ritenuta ingiusta, Annette è una figura straordinaria, che Weber ha provato a raccontare scegliendo una forma insolita, come ci ha raccontato in questa intervista.
Come mai ha scelto di dare al libro questa struttura così particolare, che ci riporta all’oralità più ancora che alla poesia e in cui ha comunque un forte rilievo la voce narrante?
In origine ho fatto questa scelta per una questione morale prima che letteraria. Dovevo occuparmi di una vita vera, che mi veniva affidata da una persona vivente, e come potevo gestirla al meglio? Non volevo elaborare qualcosa, scrivere un romanzo tradizionale, togliendo o aggiungendo cose, non volevo metterle in bocca parole che lei non aveva mai pronunciato. Però esiste una forma letteraria vecchia di millenni che è quella del poema epico, con cui in passato venivano narrate grandi opere e grandi azioni, ma soprattutto di eroi maschili, mentre il mio è il poema di un’eroina.
Volevo in qualche modo appropriarmi della storia, darle un ritmo, cosa che ho fatto scrivendo in versi liberi, sperando che questo ritmo si percepisca attraverso la lettura. Inoltre volevo avere la possibilità di rompere almeno in parte l’illusione, cioè far comprendere che non intendevo raccontare l’intera vita di Annette, come in una classica biografia, ma solo il mio sguardo su questa vita.
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Avendo appena letto il libro di Michela Marzano, scrittrice molto nota in Francia, che parla della vita del nonno fascista e s’interroga molto sui silenzi che ci sono stati nel dopoguerra, cioè su come fascismo e nazismo siano stati in qualche modo assorbiti dalle popolazioni e poi giudicati negli anni successivi, volevo sapere per quanto tempo ancora, secondo lei, sarà necessario fare i conti con i crimini del Novecento europeo.
Come tedesca penso che non potranno mai avere fine questa elaborazione e anche questo modo di cercare di superare il passato come se fosse un ostacolo. Io e tutti i tedeschi portiamo un forte peso sulle spalle, anche quelli che oggi non vorrebbero più parlarne: il tentativo stesso di rimozione fa comprendere quanto questo sia avvertito come un peso. Questa percezione secondo me si avverte anche in Italia, in Austria e anche in altre parti d’Europa e non credo scomparirà.
La storia di Annette è molto emozionante. Quali emozioni vorrebbe che il suo libro suscitasse nei lettori?
Mentre scrivo io non penso molto all’effetto che il mio testo potrebbe avere sui lettori, però in quei momenti ho le mie emozioni, i miei sentimenti. In Germania sono molto diffuse le letture ad alta voce da parte degli autori, e quando lo faccio mi capita spesso di bloccarmi, di emozionarmi in modo tale da non riuscire a continuare. Certo, poi c’è sempre la speranza che anche il lettore si emozioni, ma questo per me è un pensiero secondario. Forse vi sembro un po’ troppo protestante nella mia mentalità, ma per me voler evocare una determinata sensazione in un lettore è una cosa sbagliata, una forzatura.
Il personaggio dell’eroe è cambiato nel corso dei secoli, ed è passato dall’essere una figura senza macchia e senza paura, le cui azioni portavano sempre al bene, a qualcosa di più complesso e meno definitivo. Nel caso di Annette abbiamo un’eroina che dubita della giustezza delle proprie azioni e della certezza dei propri ideali. La sua storia vuole dirci che abbiamo ancora bisogno di eroi, ma di che tipo?
Qualcuno ha detto che sono tempi tristi quelli in cui non c’è bisogno di eroi, ma io penso che non s’intraveda ancora questo tempo all’orizzonte: noi abbiamo bisogno di persone decise che in qualche modo seguano degli obiettivi, che dimostrino la loro umanità persino nella vita di tutti i giorni, magari correndo anche dei rischi a titolo personale. Abbiamo bisogno di persone coraggiose e dovremmo anche essere tutti un po’ più coraggiosi. Sono consapevole del fatto che del termine eroe si è molto abusato, ad esempio sotto il nazismo e in Unione Sovietica, a volte toccando la perversione. Io non ho mai chiamato Annette eroina se non nel titolo, riferendomi agli eroi coraggiosi del passato, che comunque non sono infallibili.
La sua suona un po’ come un’attualizzazione dell’epica, che di solito dovrebbe essere atemporale. Il libro è invece molto attuale, perché affronta anche temi come la multiculturalità. Come mai del personaggio di Annette ha lasciato in secondo piano l’aspetto intimo, familiare, e le conseguenze delle sue scelte riguardo agli affetti?
Ero maggiormente affascinata dal lato politico della sua vita, ma siccome Annette è una persona ancora vivente, con una storia familiare tragica, dato che è sopravvissuta alla morte di due dei suoi tre figli, ho preferito evitare certi argomenti, soprattutto per discrezione e rispetto. Annette è stata discretamente fortunata nel periodo della Resistenza, ma in Algeria le cose non le sono andate altrettanto bene e ha rischiato di restare in carcere per anni. Sono spesso le lettrici a chiedersi come abbia fatto a sacrificarsi rinunciando alla vita con i figli, ma è più facile condannare per questo una donna rispetto a un uomo che magari trascura i figli per la carriera.
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È possibile che per Annette la lotta armata sia diventata uno stile di vita e che si sia fatta coinvolgere dai fatti algerini più per l’incapacità di adattarsi a un’esistenza tranquilla borghese che per vera passione?
Annette in realtà anche in Algeria non ha mai partecipato alla lotta armata, svolgendo ruoli secondari, di collegamento e trasporto di messaggi e denaro. Occorre però chiedersi quale sia il confine tra un movimento terroristico e un movimento di resistenza, che ovviamente assume una connotazione più positiva. Forse sarà il futuro a stabilire una distinzione fra terrorismo e resistenza, perché se successivamente in Algeria le cose fossero andate in modo diverso, forse oggi ricorderemmo più dei combattenti per la libertà che dei terroristi, pensando anche all’enorme squilibrio tra la potenza francese e il piccolo esercito algerino all’epoca della guerra d’indipendenza.
Durante la resistenza Annette era in una rete comunista con delle regole ferree, tra l’altro quella di non prendere iniziative personali, ma lei ha infranto questa regola salvando i ragazzi ebrei e seguendo le sue convinzioni personali prima delle regole di partito.
Per la prima foto, copyright: Mohamed Nohassi su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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