Anna Karenina: il salto nel buio della trasposizione
È stato a lungo atteso, un po’ da tutti, poi molti di quelli che l’hanno visto alle anteprime hanno gridato al capolavoro, e quando è arrivato nelle sale cinematografiche ha diviso nettamente le platee in gruppi contrapposti: Anna Karenina.
Il romanzo di Tolstoj ha conosciuto un numero spropositato di trasposizioni filmiche; da quelle degli anni Dieci del Novecento, a opera di registi come Maurice Maître, Vladimir Gardin e J. Gordon Edwards, passando per Clarence Brown e Julien Duvivier, arriviamo a quest’ultima rilettura di Joe Wright, già regista del bruttino Orgoglio e pregiudizio, di Espiazione e del notevole Hanna.
A vestire i difficili panni di Anna Karenina la “diva” Keira Knightley. Se volessimo giustificare la sua interpretazione mono-espressione, potremmo usare qualche scusante. Ma non sembra opportuno. In effetti, l’interprete di Domino e A Dangerous Method è l’unica grossa pecca di un film per il resto coraggioso e in fin dei conti equilibrato, in sé, nell’atto del “tradurre” da un medium all’altro.
La scelta di rendere un teatro il perno dell’azione, innesca un interessante gioco di specchi in cui la tradizionale quarta parete viene sfondata e i limiti di campo diventano possibili aperture sugli esterni.
Insomma, sceneggiatura di Tom Stoppard nel complesso “opportuna”, regia di grande spessore e impatto spettacolare, splendidi costumi. D’altro canto, c’è da dire che questa versione del romanzo del 1877 non concede molto, per non dire nulla, all’introspezione. E poi c’è la bella Knightley, che è bella però non è Anna. Proprio no.
Del resto, le trasposizioni sono sempre salti nel buio.
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