Anche i disabili fanno sesso. Intervista a Marina Cuollo
La paura verso ciò che non conosciamo condiziona le scelte e le azioni di ognuno al punto che si tende sempre a catalogare, ovvero “etichettare”, tutto e tutti ciò che ci circondano. Ma come si fa a sconfiggere la paura e il pregiudizio? Marina Cuollo lo ha fatto scrivendo un libro, A Disabilandia si tromba, edito quest'anno da Sperling&Kupfer. Un testo divertente che proprio grazie alla tagliente arma dell'ironia aiuta ad abbattere qualche pregiudizio e a conoscere, per non averne più timore, molti tabù.
Tabù, pregiudizi, preconcetti, ipocrisie e paure possono diventare molto “appiccicosi” ma la Cuollo sembra aver trovato la ricetta per “scollare il collante”. Ne abbiamo parlato nell'intervista che gentilmente ci ha concesso.
Poche cose sono così dure da scalfire quanto tabù e pregiudizi. Lei ha deciso di scrivere un libro proprio per abbatterne qualcuno. Perché lo ha fatto?
Posso girare la sua domanda senza nemmeno passare dal Via (quello del Monopoli. Ha presente?): perché non l’ho fatto prima, visto che ci pensavo da tutta la vita? Eh. Perché? Perché l’idea c’è sempre stata, o quasi, ma mancava il momento, il tempo e magari pure il metodo. Disabilandia è nato da un barattolo, uno di quelli da cucina, per intenderci, cioè da un pensiero facile-facile: quando non conosciamo il contenuto di un "boccaccio" (termine partenopeo che sta per contenitore di vetro con tappo) ci mettiamo un’etichetta. Su questo ci scrivo “sale”, su quest’altro "zucchero". Et voilà.
Ho iniziato a scrivere a settembre. Sei mesi più tardi ho consegnato l’ultimo capitolo. Altri due e avevo il contratto di Sperling. Dall’idea del "boccaccio" alla firma con la casa editrice è passato relativamente poco ma mi sono serviti tre decenni per metterla a fuoco. L’ho scritto adesso (cioè l’anno scorso a dire il vero), perché non potevo non farlo. Avevo non solo voglia, ma bisogno di scriverlo.
Per raggiungere i suoi lettori ha scelto una delle lame più taglienti: l'ironia. Ridendo e sorridendo i suoi pensieri, affidati alle parole del libro, lambiscono e feriscono più di una spada. Viene da chiedersi come è possibile che nel Terzo Millennio siamo ancora così “diversamente civilizzati”. Le giro la domanda.
Se capita è possibile, direbbe il generale La Palice. L’uomo mica cambia: da duecentomila anni a oggi, sono diversi gli strumenti, le cosiddette facilities, ma le paure no. Quando vediamo qualcosa a noi sconosciuto, che non ci assomiglia, che non è come noi, per la paura che possa essere un T-rex ce la battiamo di corsa.
Per citare Disabilandia: «È la paura che ci muove. La paura di non sapere cosa ci sia dentro, o dietro, o vicino a quello che non conosciamo.»
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Paura e pregiudizio vanno spesso a braccetto. A Disabilandia si tromba lo ha scritto per abbattere qualche pregiudizio, ma come ha sconfitto le sue paure?
E chi ha mai detto di averle sconfitte? Diciamo che ci sto lavorando. Il fatto è che le paure sono parte di noi, un meccanismo naturale che ci serve per sopravvivere. Funziona per associazione di idee: ancora una volta, ci fa stare lontani da quello che non conosciamo/riconosciamo e con questo sistema il nostro cervello separa. Bene, male; buono, cattivo; erbivoro o Tyrannosaurus rex; conosciuto quindi sicuro, ignoto dunque potenzialmente rischioso; pizza (uau!) e broccoli (via di corsa!).
Distinguere serve al nostro istinto per riconoscere i pericoli. Il meccanismo mentale è lo stesso per tutti gli esseri viventi.
Il coraggio invece si acquisisce dopo, con l'esperienza. Ecco a cosa serve davvero Disabilandia: a fare esperienza.
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I luoghi comuni sono come delle etichette che si mettono per riuscire a catalogare tutto ciò che ci circonda per meglio controllarlo. Lei scrive di essere stata letteralmente sommersa dalle etichette. Come è riuscita a scrollarsele di dosso?
Vedi risposta precedente: non ho scrollato le etichette, o almeno non tutte. Ho solo smesso di dare loro importanza. Come? Iniziando a riderne.
Per usare una metafora, la risata funge da solvente per la colla delle etichette. Se la colla perde aderenza, l’etichetta scivola giù.
Dalla sua in realtà non molto elevata “altezza” ha osservato il mondo e i suoi abitanti suddividendoli in varie categorie. Quale la migliore e quale la peggiore?
Nessuna. La mia categorizzazione è un paradosso, un’iperbole, una scelta stilistica. Quello che ho fatto con Disabilandia è stato marcare così tanto le etichette in modo che si rendessero più ridicole di quanto già non siano. Ridicole, sì, ma ripeto: istintive, così come è istintiva la paura verso l’ignoto alla base del bisogno di etichettare/distinguere.
Le mie "sotto-categorie" sono poi un modo per esorcizzare i luoghi comuni, mostrandoli ai lettori: un po’ come se avessi la pretesa di far vivere a chi mi legge esperienze diverse che di suo difficilmente vivrebbe.
La conoscenza è il rimedio segreto verso ogni paura insensata: quando capisci che è un broccolo e non un Tyrannosaurus rex, puoi smettere di tremare.
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Mi permetta questa curiosità. Nonostante l'ironia e la simpatia che traspare dalle sue parole il pensiero che quanto da lei affrontato abbia lasciato profondi segni non si riesce proprio a domarlo e viene fuori lo stesso. Il libro è valso anche da valvola di sfogo?
Più che altro come uno show di quelli comici: scriverlo mi ha ammazzato dal ridere.
A tal proposito, proprio qualche settimana fa mi è capitata una di quelle situazioni a cui ho ripensato durante la stesura del libro. Una di quelle da far impallidire una statua di marmo.
La mia reazione istintiva è stata quella di ridere ripensando alle parole di Disabilandia. Quanto ai segni, c’è forse qualcuno, là fuori, che non ne porta?
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Per la prima foto, copyright: Shinsuke Inque.
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