Anche gli dei piangono. “Sono Dio” di Giacomo Sartori
Alzi la mano chi non desidererebbe che Dio concedesse un’intervista. Deve averci pensato anche Giacomo Sartori, autore di Sono Dio, un autentico gioiello di romanzo (pubblicato da NNeditore) dove Dio è la voce che dice “Io”, il “narratore onnisciente” per antonomasia – chi meglio di lui? –, il nocchiero che prende saldamente le redini della narrazione. Tutte le storie che leggerete passeranno attraverso il filtro della sua peculiare, incommensurabile visione del cosmo e la sottile polvere di stelle del suo soliloquio cadrà, fitta e sontuosa, dal setaccio del suo talento di affabulatore.
Smarrito però l’iniziale stupore, la sognante meraviglia di ascoltare senza intermediari la parola di Dio, potreste trovarvi nella condizione di concepire un pensiero non proprio lusinghiero nei confronti della sua illustre Persona: “Ma quanto parla 'sto Dio?”. Avreste la vostra parte di ragione, non preoccupatevi. Dio è logorroico. Viene da pensare, sulle prime, che lo sia perché si è defilato per così tanto tempo, perché è stato a lungo in solitudine, senza qualcuno che gli prestasse attenzione. In effetti, per noi lettori che diventiamo i suoi interlocutori privilegiati, si rivela destabilizzante. È impresa non agevole entrare nello stile e nel discorso che Dio ci propone, specie ora che ha deciso di scrivere un diario a nostro uso e consumo, e propinarci tutta la sua magniloquenza. Non ci risulta prontamente simpatico: senza averne l’intenzione ci appare tronfio e vanesio, ha un’alta opinione di sé, detesta gli uomini perché stravolgono sistematicamente ogni sua creazione e si comportano da folli patentati. «Senza gli uomini non esisterebbe il male e tutto il corteggio di obbrobri e atrocità nei quali si materializza, e la perfezione del cosmo sarebbe totale. Niente infanticidi, niente vendette di sangue, guerre, stragi di innocenti, olocausti».
Devo ammettere che ho un po' faticato, per una buona cinquantina di pagine, ad accettare la sua sicumera. Potevo intuirlo Dio, nella sua (quasi) noncuranza, nell’alterigia che andava sbandierando al suo lettore, nel suo affaccendarsi in infinite cose e, per paradosso, non aver niente di particolare da fare. Quel suo irritante pontificare su tutto e tutti, quel suo vagare contemplativo per universi rigurgitanti di sbalorditivi panorami, di rarefatte lande interstellari, di neri vuoti e repentine apoteosi di gas incandescenti. Mi ci è voluto un po’ di tempo per sintonizzarmi con la scrittura del Sartori/Dio, levigata e ammirevole, col segreto timore che si rivelasse solo un bell’esercizio di stile; ma poi è accaduto qualcosa che ha permesso al testo di virare in una direzione inattesa e, per molti aspetti, foriera di intriganti sviluppi.
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Troviamo perciò curioso che lo sguardo (se così si può dire) di Dio, all’interno della via Lattea, si focalizzi a un certo punto sul sistema solare e in special modo su un pianetucolo a stento visibile, la Terra. E qui si fissi e appassioni alle vicende di una biologa stangona dai codini viola. Dafne, così si chiama la ragazza, è un personaggio straordinario che acquista maggiore spessore nel prosieguo del racconto e quasi, dico quasi – il nostro è un parere di umili lettori –, ci sembra di poter comprendere come, pur nella sua incongruità, un Dio possa interessarsi a lei. Passa di stalla in stalla a cavallo della sua motocicletta, per occuparsi dell’inseminazione artificiale delle mucche. Non riesce a morigerarsi con il sesso e con i cannoli siciliani, che potrebbero essere una (scontata?) autogratificazione per le insoddisfacenti prestazioni dei suoi compagni occasionali.
Non è bella nel senso dell’armonia di forme; anzi ha le mani e i piedi troppo larghi, la faccia lunga, il sedere e le cosce abbondanti, gli occhiali pesanti da scienziato e le treccine da lolita punk ma Dio la trova «infinitamente più bella di molte attrici o indossatrici considerate insuperabili». Dafne ha un indubbio talento, vorrebbe fare carriera con le sue ricerche su una pila a batteri, ma ha qualche “sinistro vizietto”: ruba crocifissi dai muri dei locali pubblici e privati in cui incappa e li brucia. Sta inoltre hackerando da tempo il sito del Vaticano, per carpire preziose informazioni su alcuni prelati pedofili.
Le vicende sentimentali della “motociclista sodomitica” (così il titolo di uno dei capitoli) si complicano allorché inizia a flirtare con lei un avvenente climatologo di nome Vittorio, che incidentalmente è anche il fidanzato ufficiale della sua migliore amica, Afra, un’animalista vegana ecologista sfegatata che coltiva il sogno di ritirarsi in campagna a fare la contadina medioevale. Dio cercherà di mettere i bastoni tra le ruote al bel Vittorio e ai successivi pretendenti di Dafne, per dirla tutta senza svelare troppo. Il Creatore inizia a dare segni di cedimento; deraglia nel sentimentalismo, ammette a se stesso di non essere più così imperturbabile come riteneva. Esita, tergiversa, indugia, si domanda se non si tratti per caso di un’incipiente depressione. «È questo diario […] che sto scrivendo, che mi sta portando alla rovina. Uno scrive, e più scrive più si sdilinquisce, è inevitabile, e va a finire che si mette in testa ogni sorta di fesserie. Comincia a sragionare, s’innamora».
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L’annotazione sulla scrittura non è casuale. I personaggi di Sartori lottano sempre col linguaggio per cercare di guadagnare uno spicciolo in più di consapevolezza, per dare un senso alle loro azioni. Ma cosa accade se la lingua è ingrata, se il confronto con il linguaggio è sempre perdente? Il senso di inadeguatezza di Dio nei confronti del linguaggio (e, di conseguenza, verso la scrittura) non vi sembra così simile al disagio dell’autore/demiurgo che seleziona la sua materia narrativa e tenta di risolvere il problema della sua rappresentazione, per dirla in una parola: della sua poetica? «È una fatica titanica battersi con una lingua che non è pensata per un dio. Ogni frase che dico deforma il mio pensiero […], mi fa dire corbellerie. Ogni volta parto dalle mie somme visioni e dalle mie sublimi idee, e quello che mi ritrovo tra le mani sono affermazioni intrise di meschinità, interessate, volgari, perfide, nelle quali mi è impossibile riconoscermi». Come a dire: la sola idea che possiamo avere di Dio, nella nostra finitezza, è che anche lui si possa interrogare; non ci è dato immaginare un dio che non sia raziocinante e che non possa argomentare dialetticamente. Eppure ascoltare la parola di Dio equivarrebbe a svilirne la sostanza; usare lo strumento umano per eccellenza, la lingua, annienterebbe ciò che di divino è in lui, lo renderebbe menzognero. Quel che sappiamo di lui ci è stato riferito da altri, dai testi sacri, dagli esegeti, da un linguaggio incapace di rappresentare in maniera compiuta la realtà divina, da un idioma umano, troppo umano. Ecco perché, ci dice Sartori, lo facciamo stare zitto il nostro Dio. «Scrivere una frase è come versare il primo secchio di benzina, subito si levano altissime le fiamme delle iperboli e degli struggimenti, e più si va avanti più ci si imballa […] più si va verso il delirio puro, covando azioni nefaste».
Il registro ironico utilizzato dall’autore ci strappa il sorriso in molte pagine, offrendoci con levità motivi di suggestione e riflessioni complesse sulle sfaccettature della nostra contemporaneità. Sartori sa essere caustico e dissacrante, ma sempre con eleganza e divertendo il lettore. Aspettatevi delle potenti metafore, qualche ribaltamento nella fabula e più di un inaspettato colpo di scena nello scioglimento della vicenda.
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Quanto a Dio, dopo aver ascoltato i suoi piagnistei, le sue lamentazioni e i suoi sproloqui, disponiamoci a vederlo tornare nel suo abituale stato di afasia, ma non senza aver dimostrato una superiore – divina – empatia per le umane sofferenze, dal trauma di un’infanzia violata alla scoperta dell’amore, quello autentico e appagato, pur nelle difficoltà e nelle sorprese, inedite, che l’esistenza ha sempre in serbo per noi. Me lo posso permettere, ci sembra di immaginare la chiosa sarcastica di Giacomo Sartori. Sono Dio.
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