Amore e cortesia, l’origine della lirica trobadorica
La lirica trobadorica resta uno dei prodotti artistici più affascinanti che ci siano giunti, e pur rimanendo piuttosto oscura la sua origine, mai ne è stata intaccata la bellezza; questa produzione che si sviluppa nel sud della Francia influenzerà la gran parte della successiva poesia europea, e autori e lettori riconosceranno il valore dell’eredità che questa lirica ha lasciato.
Solitamente, la nascita di questa poesia si colloca tra XI e XII secolo, e il suo periodo di massimo splendore tra il 1160 e il 1180. Il tramonto comincia poco dopo l’inizio del XIII secolo, concomitante alla crociata contro gli Albigesi (1209-1229), quando i territori del sud vengono annessi al regno francese. Nel 1323 si avrà l’unione dei poeti della “gaia scienza”, che darà vita a una poesia di scuola che segnerà la definitiva fine della lirica dei trovatori.
I testi provenzali sono stati definiti da Friedrich Schlegel come «fonti della poesia romantica», ossia la forma poetica che sarà quella dell’Europa moderna, dove alla mitologia classica subentra la mitologia cristiana e cavalleresca. I valori amorosi e cortesi dei trovatori creano una concezione dell’amore totalmente unica nel panorama occidentale, e si declinano nel godimento del sacrificio, nella moralità dell’adulterio e nell’esaltazione del segreto. Pur apparentemente paradossali, questi valori si saldano in un sistema organizzato cui viene data la definizione di “amore cortese”. E, in effetti, è questa un’espressione che mette immediatamente in rilievo i due punti focali del discorso: la corte, intesa come società, e l’amore, inteso come individuo. L’amor rende cortesi, la cortezia rende capaci di provare amore, cosicché amante e società si intersecano: l’amante rende conto dei propri obblighi alla società, la società lo difende.
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La dama a cui si rivolge il trovatore è una donna sposata, di cui si elogiano bellezza e virtù, ma se ne nasconde l’identità; la dama si rivolge con affetto all’amante, naturalmente nascondendolo al marito, e con il trovatore desidera il piacere dell’amore, sebbene non venga realizzato. La logica del sistema cortese prevede, infatti, che il piacere dell’amore, il jauzir, sarebbe deleterio per la tensione erotica che si viene a creare, il dezirier, e dunque annullerebbe il processo cortese. Il piacere amoroso viene definito fals’amor ed è tipico del marito della dama, che non può essere cortese in quanto non prova il dezirier. L’amore del trovatore è, invece, fin’amor, retto dal desiderare.
Il fine del processo cortese è il riconoscimento sociale, il dimostrare quanto si vale e quanto si è capaci, e ciò implica raffinatezza di comportamenti e di cultura linguistica.
Ma qual è la lingua dei trovatori?
La lingua usata nei componimenti viene chiamata romans o lenga romana, mentre nel xiii secolo viene definita proensal o lemosin; l’aggettivo “romanza” serve a differenziarla dal latino, “provenzale” sarà usato soprattutto per identificarla in Italia, “lemosino” in Catalogna. Ma non è in Provenza che son stati individuati i più antichi centri di questa poesia cortese, bensì nelle zone di sud-ovest, nel territorio da Poitiers a Narbona. Da qui si sarebbe sviluppato un volgare scritto nella seconda metà dell’XI secolo; la successiva lingua trobadorica si basa poi sul limosino, con varianti derivanti dalla zona del Poitou, tra le quali “joi”, “gioia”, che rimane come elemento fisso.
Nell’area limosina, il centro culturale principale è l’abbazia di San Marziale di Limoges: era qui che venivano composte le canzoni latine utilizzate per la messa, per le feste dei santi, nella liturgia, quelle canzoni che originano la lirica cortese. Componimenti di San Marziale, risalenti all’XI secolo e giunti fino a noi, mettono in risalto il rapporto stretto tra lingua romanza e lingua latina, e, in particolare, ben lo si nota in un canto di Natale in cui la lingua cambia tra una strofa e l’altra:
In hoc anni circulo
vita datur seculo,
nato nobis parvulo
de Virgine Maria.
Mei amic e mei fiel,
laisat estar lo gazel;
aprendet u so noel
de Virgine Maria.
«In questa annuale ricorrenza è data vita al mondo, è nato per noi il figlio della Vergine Maria»
«Amici miei, miei fedeli, lasciate stare le chiacchiere; imparate una canzone nuova sulla Vergine Maria»
Latino e romanzo erano usati per canzoni e preghiere. In seguito, la lirica dei trovatori si distacca dal verso e dalla strofa della poesia latina. Ad esempio, Guglielmo d’Aquitania (1071-1126), che per tradizione si individua come il primo trovatore, nelle sue opere usa un verso di otto sillabe, uno più breve di quattro, e tre lunghi di undici, dodici e quattrodici. Nelle strofe di eguale metro, egli utilizza sempre il verso di otto sillabe, con un’interessante tecnica di rime, che sono nuove di strofa in strofa, oppure addirittura uguali lungo tutto il canto. Questo tipo di lirica è destinato alla recitazione, è costruita con quel fine, e non ha dunque una sequenza fissa come aveva la liturgia. Questa è una lirica d’arte, il trovatore è un artista, e le sue canzoni devono essere belle, una novità plasmata con musica e mezzi metrici e semantici nuovi. Spesso viene paragonata alla nuova freschezza della primavera, descritta come una nuova esperienza a cui ci si può accostare con l’amore, come ampiamente emerge dalla prima strofa di una delle liriche più celebri di Guglielmo, quella del Buon Vicino:
Ab la dolchor del temps novel
Foillon li bosc e li aucel
Chanton, chascus en lor lati
Segon lo vers del novel chan;
Adonc esta ben c’om s’aisi
D’acho dont hom a plus talan.
«Per la dolcezza della stagione nuova, i boschi si ricoprono di foglie e gli uccelli cantano, ciascuno nella sua lingua, secondo la melodia del nuovo canto. Dunque è bene che ognuno si volga verso ciò che più desidera».
Naturalmente, sempre presente come tema del canto cortese è la descrizione della dama, della sua bellezza. Ciò che conta sono la tecnica e lo stile con cui questo elogio viene fatto, non a chi è rivolto: se, infatti, si badasse esclusivamente alla descrizione della dama, parrebbe che tutti i trovatori si siano rivolti alla stessa, mentre la bellezza da loro cantata deve essere valutata con occhi “medievali”; solo così ogni elogio verrà giudicato unico e diverso da un altro.
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L’elogio alla bellezza può essere più o meno ampio, si può unire a un’esaltazione della virtù, può venire interrotto momentaneamente da digressioni di altro genere e poi ripreso nelle strofe successive, e si caratterizza spesso da una bocca rossa e ridente, dai capelli biondi, dagli occhi belli di un dolce sguardo che fa nascere l’amore.
Questa lirica cortese non parla di esperienze personali, individuali, ma pone riflessioni sugli stati d’animo, compie valutazioni sull’amore e sulla poesia, impegnando costantemente i trovatori nell’innovare il contenuto e nel variare lo stile; la lirica trobadorica non è solo una poesia formale, ma un’arte il cui contenuto specifico consente di porsi in nuove prospettive e nuovi orientamenti a seconda del poeta e dell’epoca.
Riferimenti bibliografici
U. Mölk, La lirica dei trovatori, il Mulino.
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