Alla scoperta dei racconti di H.G. Wells
Una nuova realtà editoriale sonda l’immaginario poliedrico di Herbert George Wells: il risultato è una prova della sua versatilità troppo spesso relegata al solo genere della fantascienza. L’agile volumetto Il Paese dei Ciechi e altri racconti (neanche cento pagine) pubblicato dalla indipendente milanese La Tigre di Carta, nella traduzione di Michele Lavazza, accoglie cinque racconti, cinque sfaccettature, cinque saggi della “tentacolarità” dell’arte di questo scrittore e osservatore della società. L’obiettivo – come dichiarato nell’introduzione a cura del traduttore – non è tanto, sebbene ci si trovi ancora nei paraggi di quel settantesimo dalla morte con il quale a causa della cessazione delle pastoie della burocrazia proliferano traduzioni, riedizioni, saggi, atti di convegni, quello di sostenere e “dimostrare” una tesi quanto quello di porgere diletto al lettore attraverso la sola bellezza della scrittura. Una bellezza poliedrica, policroma, come quella di un prisma che rifrange e immilla luci differenti, coprendo un ampio spettro visivo (e non: si badi al titolo).
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Uno «struggente bisogno […] di risarcimento» (cito da M. Mari, I demoni e la pasta sfoglia, Milano, Il Saggiatore, 2017, p. 560) segna tutta la vicenda de Il Paese dei Ciechi: il protagonista, Nunez, scompare alla vista dei compagni di spedizione e si ritrova, lasciandosi cadere e rovinando per scarpate e pendii – è una discesa nell’abisso –, in una valle andina, “lontanissima da tutto”, un mondo a parte in cui vive una comunità di ciechi della quale è intenzionato, lui vedente, a proporsi sovrano e guida in nome di un adagio popolare ossessivamente ribadito («Nel paese dei ciechi l’orbo è re»). Verrà considerato “grezzo”, imperfetto, fino alla “marcescenza”; conoscerà il tormento di essere un diverso, si ribellerà alla maggioranza per poi vigliaccamente giustificarsi e mutarsi in schiavo; si innamorerà e otterrà, quindi, la possibilità di una riabilitazione sociale a patto di perdere la vista; ma scapperà da questo “pozzo di peccato”, questa volta scalando, avanzando, attraversando rocce, canaloni e dirupi ad occhi aperti, scrutando la “profondità di profondità” del cielo, fino a giacere inerte sì, ma sorridente e sereno, gli occhi volti ai particolari visibili del mondo intorno a lui, dal dettaglio di un “minuto lichene arancione” all’universale, “interminabile vastità” degli spazi.
Un’ennesima prova dell’immaginario poliedrico di Wells è leggibile nel secondo racconto, il primo in ordine di tempo (la pubblicazione risale al 1897, mentre tutti gli altri sono stati editi dopo il 1900): siamo in un’ipocrita ma umoristica – basti la descrizione del quadretto famigliare dei Cave: un “ometto” remissivo, nervoso e malconcio, una moglie “volgare e corpulenta”, una figliastra “polemica” e un figliastro “dinoccolato” e “teppistello” - Inghilterra vittoriana e, intorno a un uovo di cristallo, bello ma apparentemente inutile, si sviluppa e si coagula il mistero di una nuova scoperta. Sotto gli occhi di un negoziante di anticaglie, aiutato da uno scienziato, precisamente un “assistente alle dimostrazioni” dell’ospedale vicino (ci muoviamo a Londra, nella zona tra St. James’s Park e Hyde Park), si disvela la possibilità di una connessione tra la Terra e Marte, tra uomo e marziano, tra gli occhi “acquosi” del signor Cave e quelli “strani” e “molto grandi” dei presunti abitatori del Pianeta Rosso. Sommando l’iridescente poesia delle descrizioni (Cave vede tra le tante cose “un’ampia estensione d’acqua, liscia e luminosa come uno specchio”; e la sua attenzione è attratta da creature “dalle ampie ali argentee, non piumate […] sorrette da costole curve che si irradiavano dal corpo”) ai dettagli tecnici o maniacalmente precisi (l’inclinazione a “137 gradi” […] rispetto alla direzione del raggio”, l’unica che permetta la visione all’interno del cristallo) della ricognizione scientifica l’autore, con L’uovo di cristallo, schiude, nell’unico modo possibile in quella grigia contingenza, le porte del fantastico.
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Il soffitto infestato, ritrovato fra alcune carte inedite di Wells appartenenti a un fondo conservato presso l’Università dell’Illinois, pubblicato per la prima volta in inglese nel 2016 e ora disponibile, grazie alla traduzione di Michele Lavazza, anche in italiano, costituisce un esempio della versatilità di Wells nel trattare la materia letteraria declinandola secondo i modi del racconto dell’orrore. Dallo scontro vista/cecità del primo racconto e dalla lucentezza opalina e squamosa del successivo, si perviene al grigiore fuligginoso di un soffitto, dal quale traspare (o traspira?) la sagoma di una “donna […] con la gola tagliata”: l’inquilino, insieme al narratore, cercherà di venire a capo di questo delirante mistero.
Con L’impero delle formiche siamo invece in pieno territorio del racconto d’avventura: ma se, il ritmo incalzante, l’ambientazione esotica e le caratterizzazioni dei personaggi fanno quasi pensare a Salgari (che, nello stesso anno, il 1905, licenziava alle stampe Jolanda, la figlia del Corsaro Nero), pienamente wellsiana è l’acutezza nel riconoscere che la vera “minaccia delle formiche è quanto in esse le avvicina all’uomo, non quanto in esse le differenzia da lui”. Al netto, gli animaleschi filibustieri della Tortue (ma nemmeno il conte di Medina o il capitano Valera) nulla possono contro le “formiche intelligenti”. Salgari muore, suicida, nell’industrializzata Torino, il 25 aprile del 1911. “Entro il 1911” le formiche – secondo le previsioni del narratore – avrebbero dovuto “colpire la Ferrovia del Capuarana” costringendo “il capitalista europeo a dedicar loro la sua attenzione”.
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Si chiude con Il completo meraviglioso: poche pagine di fiabesca rarefazione, che si librano come variopinte e delicate farfalle crepuscolari. L’immagine non è peregrina, dato il continuo, danzante avvicendarsi di ambientazioni oniriche, pennellate di colorismo (dai colori scintillanti del vestito nell’incipit alle sfumature argentee, lunari, del finale) ed immagini impalpabili. L’immagine non è peregrina perché si fisicizza, in ultima battuta, in una “dolce falena” che volteggia attorno al protagonista, fino a sfiorargli le labbra.
Con la fine di questo racconto muore anche la nostra lettura, almeno concretamente. In realtà non tutto è cancellato: qualcosa rimane, foss’anche una tenue, “fresca scia d’argento”; foss’anche un sottile libretto fresco di stampa, figlio di una nuova realtà editoriale: la traccia della letteratura e dell’immaginario poliedrico di Herbert George Wells.
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