Alla ricerca delle radici dell’Europa. “La compagnia del crepuscolo” di François Bourgeon
Esistono opere e autori che si sforzano di provare a restituire al lettore uno squisito senso di appartenenza “politica” e intellettuale. Affrontando con estrema perizia storica e furore narrativo il tema delle radici dell’Europa, è esattamente ciò che riesce a fare François Bourgeon con i due volumi de La compagnia del crepuscolo, editi da Mondadori per la collana Historica nella traduzione dal francese a cura di Mauro Neri.
Attraverso uno stile personalissimo, riuscito mélange di riferimenti culturali (e linguistici) alti e bassi, e servendosi di un tratto dettagliato e fedele a un realismo estremamente funzionale alla narrazione, Bourgeon – già noto al pubblico per l’entusiasmante saga I passeggeri del vento – sviluppa le drammatiche peripezie di un’eterogenea compagnia di ventura composta da un cavaliere senza volto e con un passato che gronda sangue, dal pavido e ignorante contadino Aniceto e completata dalla seducente e vitale popolana Mariotta, vera forza positiva dell’intero racconto.
Il lavoro dell’autore si sviluppa lungo due tronconi distinti e precisi, che seguono la divisione in volumi: Il bosco delle nebbie e L’ultimo canto di Malaterra. Se il primo affonda le radici tra i miti e le leggende della tradizione nordica francese (bretone e normanna, nello specifico), concentrandosi su come la loro eredità oscura, violenta e iniziatica, abbia influenzato sogni e immaginario del tardo Medioevo in un faticoso passaggio verso l’età moderna, il secondo poggia invece su un realismo se possibile ancora più spietato del contorno confuso e sinistro del sogno, traendo ogni personaggio, protagonista o comprimario, verso il coerente compimento del proprio fato.
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François Bourgeon con questa opera non cerca soluzioni semplici, al contrario vuole suggerire al lettore come la costruzione di una società inclusiva e tollerante abbia attraversato profondi travagli, affondando le radici nel sangue, nella lotta e nella sopraffazione: tesi non molto diversa da quella sottolineata nel 2002 da Martin Scorsese col suo Gangs of New York; ma se in quel contesto la brevità della memoria storica aiuta a inciderne il monito, e noi riconosciamo nella fremente e ultraviolenta genesi della città i personaggi bigger than life amati e ritratti più volte dal maestro italo-americano, come europei spesso fatichiamo a renderci conto della nostra eredità storica (che spesso confondiamo con la staticità dei simboli) e di ciò che è costato il raggiungere certi traguardi: la storia più che docente si fa nebbia nella quale è difficile orientarsi, altrettanto facile invece perderne il senso e ritrovarsi smarriti, con un passato che da prezioso strumento diviene carceriere. Il prezzo pagato dai protagonisti della sgangherata compagnia è altissimo, non si scappa da ciò che si è (stati) e le molteplici avventure vissute finiscono, pagina dopo pagina, per cementare questa estrema consapevolezza in ognuno di loro. Il cavaliere corre deciso e rassegnato incontro al suo destino, senza nessuna intenzione moraleggiante di redimere il prossimo: lui ad alcuno deve qualcosa, solo ed eventualmente a se stesso.
L’individualismo così faticosamente conquistato diventa dunque il punto di partenza perfetto per sgretolare certezze e fedi; nessuno è risparmiato: nobiltà e clero, ma anche lo squallore che si annida tra le pieghe dell’indigenza morale, spirituale e materiale che flagellavano anche gli strati più umili della popolazione. Tutti pronti a sacrificare il vicino, l’amico, e persino il familiare a vantaggio di un tornaconto immediato, destinato a spegnersi al primo, successivo anelito di terribile sgomento.
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Il sacrificio ideale dei protagonisti de La compagnia del crepuscolo ha, nelle intenzioni dell’autore, proprio lo scopo di celebrare la cessazione, sebbene temporanea, del terrore che affligge il vivente. Non è un caso che metaforicamente sia stato scelto un interminabile inverno come scenografia ideale delle vicende, e che gli unici ad avere la fortuna di tirarsi fuori da questo pantano morale siano un vecchio, pronto ad accogliere e perdonare ladre e assassini, e la giovane Mariotta, forte di una carica sessuale incontenibile che sboccia in una nuova primavera proprio nell’ultima tavola dell’opera, forse l’inno più commovente e sentito di François Bourgeon: da un crepuscolo, l’alba di un tempo a venire ancora lontano, ma ineluttabile.
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