Alla ricerca dell’occasione ultima
Juan Josè Saer è uno scrittore argentino e nel panorama della letteratura latino-americana ha sempre combattuto le facili fascinazioni che essa ha prodotto nella maggior parte dei lettori. Si è scagliato sia contro i critici sia contro i lettori accusandoli più o meno implicitamente di mancato approfondimento, fermi alla stereotipata formula del “realismo magico”. La polemica gli è costata la scarsa considerazione di cui è stato oggetto sia presso il pubblico sia presso la critica. La coerenza di quanto egli professava è provata dal testo del romanzo L'occasione (La nuova frontiera, traduzione di Gina Maneri) in cui non sembra voler concedere nulla alle comodità del lettore.
Un uomo, la moglie, l'amico della coppia. Il famoso triangolo di tanta letteratura. Il marito sospetta che la moglie lo tradisca con l'amico. La gelosia, tormento conseguente all'amore. Saer non si sottrae dal trattare la gelosia, con la fondamentale differenza che nel suo romanzo la parola “amore” non viene mai citata.
L'ossessione della gelosia è tipica, ma Saer tratta un tipo speciale di ossessione: il controllo del potere! Che a quarantatré anni il protagonista abbia sposato una ragazza di poco più di quindici non muove le intenzioni fondamentali dello scrittore, ciò che lo interessa è rappresentare il controllo totalitario della verità. Ovvero il potere.
L'incipit del romanzo è rivelatore della manipolazione subita dalla verità.
«Chiamiamolo semplicemente Bianco. Se in certi periodi della sua vita si era fatto chiamare Burton…»
Fermiamoci qui. “Chiamiamolo”… “si era fatto chiamare”… Ciò che in ogni uomo equivale all'unica vera verità, cioè il proprio nome, non sembra valere nel caso del protagonista del romanzo di Saer.
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Altri passaggi, nelle prime pagine, indicano l'inafferrabilità di ciò che appare scontato.
«...diceva di essere nato a Malta»… «prenderà la nazionalità italiana, e farà del toscano la sua lingua madre». E ancora: «A causa di questa nebulosità di ordine vario, di nascita, razza, lingua…»
Non vogliano rivelare altro e sciupare il percorso del lettore. Diciamo soltanto che ce n'è abbastanza per intuire quanto potrà riservare il proseguimento della lettura.
Di specifico, se di specificità si può parlare, c'è la telepatia praticata e rivendicata dal protagonista, contro ogni opposizione razionale di quelli che lui chiama spregiativamente positivisti. Bianco o Burton si destreggia nello spezzare col solo fluido del pensiero cucchiai di ferro e ridare funzionalità a bilancieri di orologi inceppati. Piega la tanto osteggiata natura al suo volere (ciò che nel testo viene chiamato natura non riflette la complessità filosofica assunta dal termine, quanto il pretesto per centrare la soggettività manichea del protagonista di opporsi al mondo sensibile). Ciò non toglie che dimostrerà oculatezza imprenditoriale e finanziaria, intraprendendo allevamenti di bestiame e ingegnosi commerci. Per l'uomo che parla tutte le lingue, che ha più nomi e città natali, ritirarsi nella desolata pianura argentina (magnificamente descritta) infestata di zanzare e brutalità umane, significa prendere, incamerare denaro e compensare il fallimento sofferto in un teatro parigino che ha sonoramente fischiato le sue esibizioni telepatiche. In pianura conoscerà la futura moglie e il medico che lo curerà di una ferita alla mano e che diventerà suo unico amico. Ma gli basterà tutto ciò?
È in gioco tutta la vita dell'uomo, presente e passata. Per vita in questo romanzo, a prima vista freddo e di cupo pessimismo (non c'è un solo personaggio che ispiri umanità), si intende l'auto-reputazione di chi vuol vivere a dispetto delle leggi naturali.
Il secondo capitolo senza alcun preliminare avviso, parte, sfruttando l'artificio narrativo di un tentativo letterario dell'amico, con la descrizione della nascita di Cristo, o meglio della voce popolare che annuncia che a Betlemme è nato un bambino; di qui il viaggio per andare a vedere la nascita e subire l'assicurazione degli abitanti di Betlemme che non è nato alcun bambino. La nascita di Cristo come menzogna. Divertissement più che accanimento dottrinale, Bianco o Burton non gli dà molto credito, ma la cosa è confermativa di quanto finora detto: il non voler piegarsi alle verità acquisite. È solo un esempio che Saer introduce a mo' di contesto comparativo, il suo protagonista non si interessa di religione, o implicitamente la ritiene effetto della osteggiata natura, a lui interessa combattere l'alterigia dei positivisti (come il terminenatura èalieno da valenze concettuali, così ipositivisti assumono un peso e un arbitrio, esclusivamente narrativi). Usare la potenza del pensiero, senza ricorrere a scienze e formule se non quelle implicite alla propria indiscussa autonomia e affermazione.
Quale smacco riceverà l'uomo che spezza i metalli dal tormento di non poter afferrare la verità riguardo la moglie?
I segni premonitori ci sono stati: all'insuccesso parigino è seguita una preminente caduta dei poteri telepatici, a cui sembra iniziata la giovane moglie che lo spinge a esercitarsi a leggere il seme di carte da gioco capovolte. Non gli riuscirà. Parallelamente a quanto non riesce a capire la moglie, torchiandola inutilmente vivisezionandone il volto, il portamento, i gesti apparsi oscuri e impenetrabili. È solo per condiscendenza che lei lo sprona a esercitarsi nel vedere l'invisibile? Forse sa in partenza che lui non riuscirà? È la sua provocazione e vendetta? Lei sembra essersi lasciata sposare: alla proposta di lui è rimasta impassibile, atteggiamento espresso nel più glaciale mutismo. Il silenzio della donna ruba il potere all'uomo. Che l'apparente insensibilità sia dovuta alla violenza subita a soli sedici anni nell’andare sposa? L'uomo le ha rubato la giovinezza? Impossibile comunque nel corso della lettura immaginarla ragazza o bambina in senso psicologico e comportamentale.
Tutti i personaggi del romanzo, principali e collaterali, sembrano non avere o non aver avuto un'età che li sollevi da una sorta di gelida cristallizzazione. Padri mummificati dalla paura o dalla cupa rassegnazione, sorelle rinsecchite e spettrali, il fratello dell'amico a soli vent'anni già calvo e incancrenito dall'odio e dalla ferocia. Non c'è vita, solo il deserto della pianura che intorbida l'essere umano rendendolo insensibile ai sentimenti e alle emozioni. In quanto allo sposo, il vedere la moglie è fonte solo di dubbi, di frastornante incapacità a penetrare i segreti di un volto di cui viviseziona ogni minuscolo tratto, ogni piega e vibrazione, ogni mutamento, ogni battito di ciglia, pallori e rossori, tentennamenti, corrugamenti...
La prosa di Saer è accanita nel dilungarsi in periodi descrittivi che tolgono il fiato al lettore e leggibilità alla stessa stesura dell'introspezione. Ma sono lungaggini indicative dell’interiorità guasta del protagonista che si vede spogliato dei propri poteri. Che si strazia nell'attesa che la moglie si tradisca. Il vero tradimento è il non rivelarsi. L'uomo cui riusciva facile indovinare il contenuto delle tasche di chi sedeva in platea, ora è ridotto a usare occhi e mente come spuntate lenti di ingrandimento per scrutare la moglie, non ottenendo altro che dettagli deformanti e devastanti, specchio dell'ossessione.
Non c'è amore quindi, ma solo perdita di potere. Se più non si voglia accreditare all'uomo l'intransigenza della fede nei propri mezzi occulti, a discapito dell'automatismocon cui il resto degli uomini accetta le verità rivelate. In questo caso si tratterebbe di contrapporre la cosciente fede nel pensiero alla subliminale introiezione. Tesi poco sostenibile, l'uomo non appare come libero pensatore ma piuttosto come coatto pensatore. Non ha nulla del Don Chisciotte, anche se i suoi tentativi non fuggono del tutto il paradigma dei mulini a vento. Ma se Don Chisciotte era pazzo senza credersi pazzo, l'uomo di Saer teme di diventare pazzo, a suon di usare il pensiero dispoticamente. L'uomo di Saer non ha nulla della eroica ingenuità del cavaliere spagnolo, esprime solo rancore e fallita supremazia. Né il dubbio costante lo redime. Lo si può perdonare, perché è lui la prima vittima del suo incessante rodimento cerebrale e umano.
Quale è dunque l'occasione per uscire da tutto questo?
Il terzo capitolo, al primo momento sembra allontanare l'occasione di capire, di correlare. La letteratura latino-americana, in particolar modo argentina, spesso usa le digressioni, i salti tematici che non sempre vengono collegati a un preciso nucleo narrativo. Nel caso del romanzo di Saer, l'iniziale estraneità del terzo capitolo rivelerà la relazione con quanto precedentemente scritto e letto: l'avvento della stregoneria. Nell'impossibilità della verità si inserisce come soluzione la credenza idolatra.
I fatti che precedono lo stregone e la sua verità idolatrata, sono di una efferatezza senza limiti. Non li citeremo per non influenzare troppo i lettori, basti dire che da azioni di una turpitudine estrema si relazionerà la figura grottesca dell'idolo cui ricorrerà il protagonista del romanzo per sperare di accedere alla verità. Si servirà insomma, a pagamento, di altrui (supposte) proprietà profetiche, senza però ottenere quel che sperava. L'occasione è rimandata.
Il finale, forse, offre una possibile occasione: l'uomo piegherà al suo volere la figura e l'essenza di un altro uomo abituato a padroneggiare e a uccidere se è il caso. La vittoria dell'uno e l'arrendevolezza dell'altro sono solo alluse, poche parole le esprimono, segno di quanto rimanga incerta e aperta la questione del potere. Dell'amore, nemmeno l'ombra. Solo il sole della pianura che rende arida ogni cosa.
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Novità del romanzo: il capitoletto finale di sole tre pagine intitolato Congedo (i tre precedenti capitoli non hanno titolo). Più che una conclusione sembra indicare uno sprone a sperare in un domani di umanità. Congedo dalla verità per lasciar posto alla superstizione? Congedo dall'arida e disumana debolezza? Reintegrazione della debolezza umana da parte di un personaggio secondario che spera che lo stregone gli indichi le decisioni da prendere per ricongiungersi alla sua famiglia italiana di cui soffre la lontananza? Profezia che non avviene o meglio avviene ma in maniera cumulativa per la platea di più richiedenti, in maniera che l'uomo non la capisca.
Non c'è sete di potere nello sperare che la stregoneria possa vincere le umane ristrettezze? È questa l'occasione?
La sigla finale HIC INCIPIT PESTIS suona sinistra o semplicemente enigmatica?
Per la prima foto, copyright: Amir Hosseini su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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