Alla ricerca dei nostri mostri. “Atlante del mistero” di Orazio Labbate
I mostri del nostro immaginario, che in varia misura hanno segnato la nostra esperienza di quanto nel mondo c’è di terrificante e imponderabile, hanno una casa? Sembra proprio di sì.
È uscito quest’anno per la casa editrice Centauria Atlante del mistero. Viaggio illustrato nelle quaranta dimore le cui porte non vorreste mai aprire, nato dalla felice collaborazione fra l’illustratore Simone Pace e lo scrittore siciliano Orazio Labbate (qui una nostra intervista all’autore).
Ma attenzione, non lasciatevi ingannare dai colori vivaci e dai soggetti accattivanti, questo libro non è semplicemente un sussidio favolistico per i più piccoli, bensì un attento lavoro di ricerca e d’indagine sui personaggi più inquietanti e conosciuti che, nati nella letteratura o nel cinema, si sono infiltrati nell’immaginario comune fino a diventare vere e proprie icone pop.
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Questa ricerca negli anfratti più oscuri dell’immaginario non poteva che condurla Labbate, che con i suoi romanzi Lo scuru e Suttaterra si è fatto portabandiera del genere gotico. Come dice consonamente Andrea Morstabilini nell’introduzione al libro: «Sta, mi sembra, in questa contrapposizione fra chiaro e scuro, fra superno e mondano, la natura più vera dell’architettura gotica, che di lì si è poi trasfigurata nel gotico letterario, che sempre si gioca nello spazio di una contraddizione, di un’incertezza: i fantasmi, essenze – o meglio: assenze – impalpabili, abitano la terra. (..) Tale è Orazio Labbate, che del gotico – ma, appunto, del gotico più autentico, quello che vive nello iato fra tensione alla luce e desiderio dell’ombra – ha fatto il perno della sua letteratura.»
Questo viaggio allucinato che l’autore ci propone inizia dal castello di Dracula in Romania e termina a Tangeri, Marocco, nella “camera degli insetti” dove vive Billy, il personaggio di Pasto nudo di Burroughs, passando per luoghi più assoluti o più specificamente “letterari” come l’Inferno dantesco o le “porte dell’Ade”.
Quello che c’è di più interessante in quest’opera è l’intento dell’autore di ritrovare sempre una ragione metafisica che presieda alla struttura del luogo. Il luogo in questione diventa quindi espressione diretta del personaggio che lo abita, sua proiezione ad esso reciproca: i due elementi sono connaturati, l’uno necessita l’altro.
«L’oscurità perenne che avvolge la fortezza, talvolta interrotta dalla luna piena, è per Dracula essenziale per esprimere la sua malvagità. Il mostro trae forza dal buio e non tollera la luce. La luce solare è la sua morte. Il castello è quindi il luogo in cui Dracula può nascondersi totalmente.»
Oppure quando parla dell’Overlook Hotel, il terrificante albergo della follia di Jack Torrance, protagonista del romanzo di Stephen King, che tanto è entrato nell’immaginario collettivo dopo l’enorme successo del film di Kubrick, l’autore scrive: «L’albergo poiché isolato fra le disabitate Montagne Rocciose, in pieno inverno è il posto congeniale dove Torrance può lasciarsi travolgere dai demoni senza alcun testimone». Anche qui la natura malvagia del personaggio trova i suoi radicali presupposti nel luogo in cui va in scena la sua vicenda narrativa, trovando peraltro il punto d’intersezione fra due vicende – quella del romanzo e quella del film – autonome e divergenti: in entrambi il punto di sintesi andrà trovato in una solitudine che scava fino a sfondare l’abisso.
Labbate, che nella sua intervista, ci aveva detto «Secondo me lo scrittore moderno deve rifarsi alla filmografia dei registi di riferimento [...] Cerco di coniugare le due cose, non sfuggo il confronto con i nostri tempi, queste forme espressive possono convivere», traccia in questo Atlante l’arco di questi parallelismi, mostra la tridimensionalità dei suoi personaggi, capaci di esibire la propria natura tanto sulla carta quanto sulla pellicola; il loro carattere determinato e individuale diviene un’entità indipendente a servizio di un immaginario comune.
Penetrando nel libro ci si accorge di aver davanti un vero e proprio dizionario simbolico dei nostri recessi, se è vero che quanto viene estremizzato nell’horror ha radice in noi e nella natura metamorfica e instabile dell’umano. In Insidious, l’horror cult diretto da James Wan, solo nell’Altrove la protagonista può «godere del suo prediletto nutrendosi delle sue paure e dello stadio onirico in cui questi è intrappolato»: non è forse connaturato all’uomo il desiderio terribile di fermare il tempo, rinunciando a ogni fiducia nei confronti della vita, uccidendo il desiderio di sapere, di scoprire? Fermare il tempo, creare una sorta di dimensione parallela fissa nella staticità, non è forse la forma di resa più terribile che l’uomo possa concedersi?
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Sfogliando questo libro dunque entriamo nella casa di un assassino, di uno psicopatico, di un mitomane, di un elfo, nei cunicoli bui che sono in noi. Vi entriamo da estranei: prima i luoghi ci vengono raccontati, poi – violente, nel sovrabbondare di particolari – le immagini di Simone Pace squarciano la pagina bianca; e per un moneto torniamo ad essere quei bambini che prima di addormentarsi raccoglievano tutte le forze per controllare un’ultima volta che sotto il letto non fosse nascosto niente di terrificante.
Per la prima foto, copyright: Joe Green.
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