All’origine delle parole insieme ad Andrea Marcolongo
Alla fonte delle parole (Mondadori, 2019) è il nuovo libro di Andrea Marcolongo: dopo averci invitato ad amare il greco con il suo sorprendente esordio La lingua geniale (Laterza, 2016) e averci raccontato il mitico viaggio degli Argonauti come romanzo di formazione in La misura eroica (Mondadori, 2018), questa volta ci presenta un particolare e personalissimo dizionario. Si tratta di una scelta di novantanove parole, tra verbi, aggettivi e sostantivi, di cui l’autrice ci racconta la più o meno complessa storia linguistica, partendo da origini più o meno remote, fatte di intrecci e contaminazioni, per arrivare al significato attuale e al modo in cui queste parole vengono usate nel linguaggio odierno. Sono percorsi a volte affascinanti, che si snodano fra miti, storia e letteratura, per ricordarci l’importanza e il peso che le parole hanno nella nostra vita, ma anche per metterci in guardia dal rischio di usarle male o di fraintenderne il significato.
Andrea Marcolongo ci ha parlato di questo nuovo libro nel corso di un incontro con i blogger che si è tenuto a Milano.
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Come ha selezionato queste parole, e perché sono proprio novantanove?
Non c’è nessuna ragione specifica per cui abbia scelto queste parole e non altre. Mi sono presa il lusso di scrivere solo per piacere, per condividere qualcosa con il lettore. Non avevo il fine di dimostrare che le lingue antiche siano più belle o preziose di quelle contemporanee, non sono nemmeno le parole più difficili dell’italiano o quelle più significative: sono semplicemente novantanove storie, perché raccontare l’origine di una parola significa raccontare la storia delle persone che l’hanno utilizzata dal principio fino a oggi.
Quando ho consegnato il libro ho pianto perché non volevo finirlo. È un piacere iniziato tantissimo tempo fa, e che sicuramente per me non finisce con questo libro: il numero è questo solo per ragioni di spazio, perché sono arrivata a trecento pagine e aumentarle sarebbe stato eccessivo.
Le ho scelte perché mi hanno dato piacere. Altre parole sono state scartate, mentre quella da cui tutto è iniziato, qualche anno fa, è poesia: un amico me ne aveva chiesto l’origine. Il mio rapporto con l’etimologia oscilla da sempre tra la noia delle persone che mi vivono accanto, perché in ogni mio discorso non posso fare a meno di infilarci la storia di una parola, e lo sfruttamento: non so più quante parole ho spiegato e raccontato ai miei amici. Non è un gioco, perché ci vuole cautela nel maneggiare le parole.
Prima di tutto mi sento scrittrice, per cui rivendico il piacere di raccontare una storia.
Le è capitato di pensare a una parola, magari per definire un’idea, una sensazione, che ci vorrebbe ma che non abbiamo?
No, perché le parole ci sono davvero tutte. Il problema nasce quando manca il pensiero, quando siamo noi che non riusciamo a concepire qualcosa e che non riusciamo nemmeno a trovare la parola per definirlo, non perché non esista, ma perché noi non sappiamo pensarla. Esistono anche delle emozioni che restano indefinibili, ineffabili.
L’arcobaleno, ad esempio, è una parola recentissima per definire quello che per millenni è stato definito semplicemente prodigio.
Quindi non dobbiamo sentirci in colpa quando ci mancano le parole per definire le emozioni?
La prima volta che sono arrivata a Milano era novembre e io mi ero fatta tatuare sul braccio la frase “senza parole” che non si riferiva alla canzone di Vasco Rossi ma era come mi sentivo io, anche se sembra un paradosso perché studiavo lettere classiche e vivevo circondata dai dizionari. Non sapevo pensarle e dire chi ero. È come quando non sappiamo che libro scegliere. La sensazione di aver perso molte parole ha accompagnato la stesura di questo libro.
Sono incuriosita dalla parte tecnica della stesura del libro. Da dove è partita nel momento in cui ha scelto di ricostruire la storia di una parola, da una serie di dizionari o altro? Qual è il metodo di lavoro per costruire un libro come questo?
Chi non maneggia la linguistica spesso pensa che definire una parola sia una specie di gioco tipo L’eredità. Per ricostruirne la storia devo sempre studiare, andarne a cercare la fonte. Sicuramente la mia scrivania era ricoperta da dizionari etimologici di ogni genere, da confrontare tra loro, oltre ai dizionari classici e anche a molti romanzi.
Ho una serie di taccuini di dieci anni fa in cui annotavo le parole che m’incuriosivano e spesso sceglievo una di queste. Se ne conoscevo già l’origine partivo da quella e andavo avanti, se non la conoscevo andavo a cercarla. Se m’incuriosiva proseguivo, ma se l’origine mi sembrava poco interessante lasciavo perdere quella parola.
Poi ci sono anche delle parole che hanno in realtà un’origine semplice, come labirinto, ma che hanno in sé delle storie importanti, come quella di Arthur Evans che per primo scavò a Creta per cercare i resti di Cnosso. Lo prendevano in giro, ma arrivò a comprare ettari di terreno per poter scavare e dimostrare le sue tesi.
Ci sono parole che ha volutamente escluso?
Ora non me le ricordo neppure, però manca la parola classico perché ho scelto di scriverla insieme agli studenti quando vado nelle scuole. In effetti ho anche barato, perché rileggendo il libro mi sono resa conto che per ogni parola scelta ne racconto almeno tre!
La parola è un veicolo di conoscenza, soprattutto in filosofia: Heidegger per esempio esprime le sue riflessioni partendo dall’analisi e dalla scomposizione di determinate parole. Però è vero che oggi c’è una riduzione nell’uso delle parole, oppure un loro cattivo uso, come nelle fake news, e questo porta a una perdita di conoscenza. Cosa ne pensa?
Potrei scrivere un altro libro su questo argomento. Nella raccolta delle parole mi sono tolta lo sfizio di andare a fondo nello sguardo che abbiamo sulla nostra contemporaneità. Anni fa avrei detto anch’io che la riduzione del linguaggio è colpa dei social, poi ho coniato la definizione di “sindrome dell’apocalisse”: tendiamo a dire che non leggiamo più libri, che usiamo meno parole, che la comunicazione è ridotta, che è tutto finito… Ci dipingiamo un quadro più nero di quello reale per autoassolverci, per dire ecco, tutti comunicano male per cui non vale la pena di cercare di alzare il livello. Incolpiamo i social, i politici, la scuola, ma anche noi siamo responsabili.
Il mondo e le lingue hanno attraversato un periodo peggiore di questo che è stato la fine dell’Impero Romano. Mentre crolla Roma e arrivano i barbari, crollano anche mille anni di lingue, religione, filosofia, storia, arte, visione del mondo. Da quella crisi ben più profonda di quella attuale nasce la civiltà in cui viviamo oggi, perché non siamo certo eredi diretti di Pericle e Giulio Cesare.
Non credo che oggi si conoscano meno parole. Un tweet scritto di fretta non è meno sciatto del saluto frettoloso che rivolgo al portiere uscendo al mattino. Denuncia solo la noncuranza verso gli altri, ma anche verso noi stessi: mi presento al mondo con un pensiero sciatto e non me ne curo.
Quindi pensa che ci sia un certo allarmismo sullo stato di salute della lingua italiana?
È giusto mantenersi vigili, ma l’allarmismo non è solo verso la lingua italiana: io vivo in Francia e lì dicono che il francese è finito, sepolto sotto neologismi e anglicismi, c’è addirittura una legge che impone che ogni pubblicità porti con sé la traduzione degli slogan in inglese. In realtà, il francese sta cambiando come qualsiasi altra lingua, perché cambiano gli esseri umani: le lingue smettono di evolversi quando muoiono e quando muore la capacità di pensiero delle persone. La vigilanza va benissimo, ma senza scendere nel vittimismo.
Questa operazione di risalire all’origine delle parole può avere oggi una funzione sociale importante?
Sì, su due piani: a livello individuale si sta meglio quando si conosce la radice delle parole che usiamo perché è come radiografare il nostro pensiero. Non credo di essere l’unica al mondo a sentirmi spesso soffocare da pensieri confusi che non riesco a sbrogliare.
Fare chiarezza mi permette anche di decifrare il mondo che mi circonda, è un modo per sconfiggere il caos.
In questo viaggio alla ricerca dell’etimologia fino a che punto ci si avvicina alla realtà di una parola?
Isidoro di Siviglia dice che indagare sull’origine di una parola significa andare alla radice della realtà. Io ho scoperto tante cose che mi hanno fatto riflettere, anche se non sono certo scoperte universali. Odio deriva da una radice indoeuropea che significa “corrodere, consumare, logorare dentro”. Poi prosegue e finisce in una parola greca che significa “dente” e ricorda il dolore sordo del mal di denti. Pare che stia anche all’origine del nome di Ulisse, Odisseo, colui che è odiato da Poseidone a cui uccide il figlio Polifemo.
A me ha fatto pensare a quante volte noi odiamo qualcosa o qualcuno, che ne è ignaro, ma siamo noi che soffriamo. L’odio non colpisce la persona che odiamo ma fa male a noi stessi.
Come ha rincorso queste parole nel corso dei secoli, dopo averne trovato l’origine?
Non c’è uno schema fisso, anche perché le parole sono tanto diverse tra loro. Se una parola nasce dal polinesiano come tabù mi fermo subito, ma se la radice è indoeuropea, da questa lingua mai documentata ma solo ricostruita, ed è interessante e importante per noi, vado a cercare nelle lingue antiche, come il sanscrito o l’indo persiano, per tornare poi alle lingue latine che maneggio, o a quelle germaniche, che però conosco meno e devo studiare.
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Per la parola migrante ha pensato di più al passato o al presente?
Ho pensato al presente, cercando di non farmi contaminare dalla grettezza contemporanea ma senza voler fare l’opinionista: ho provato a pensare alle migrazioni delle parole, a quelle che ci arrivano da altre lingue.
Per la prima foto, copyright: Romain Vignes su Unsplash.
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