Alberto Moravia e Ingmar Bergman – La necessità di un gesto sincero [Parte 1]
«Entrò Carla; aveva indossato un vestitino di lanetta marrone con la gonna così corta, che bastò quel movimento di chiudere l’uscio per fargliela salire di un buon palmo sopra le pieghe lente che le facevano le calze intorno alle gambe; ma ella non se ne accorse e si avanzò con precauzione guardando misteriosamente davanti a sé, dinoccolata e malsicura; una sola lampada era accesa e illuminava le ginocchia di Leo seduto sul divano; un’oscurità grigia avvolgeva il resto del salotto.»
Così comincia il romanzo Gli indifferenti, scritto da un giovanissimo Alberto Moravia e pubblicato nel 1929. Accolto con entusiasmo dalla critica e tuttora considerato il primo romanzo esistenzialista italiano – secondo il critico Alberico Sala – nonché uno dei pilastri della letteratura italiana del Novecento:
«Nell’acqua distillata della nostra letteratura, Moravia gettò l’aspra storia del suo primo libro, una storia si direbbe più ispirata che pensata, perché l’autore stesso non si rese subito conto di aver scritto il primo libro esistenzialista.»
All’interno di una villa si consuma la tragedia degli Ardengo, famiglia formata dalla madre, Mariagrazia, e dai suoi due figli, Carla e Michele, che diviene vittima, consapevole e non, della rapacità dello spietato Leo, il ritratto del perfetto borghese. Lo scrittore e critico letterario Edoardo Sanguineti così parlò del romanzo:
«Il libro che segna nella nostra letteratura narrativa l’atto definitivo di morte del buon senso borghese.»
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Se nel teatro di Carlo Goldoni, si pensi alla Locandiera o alla Bottega del caffè, l’industriosa e schietta borghesia subentra poco a poco alla decaduta casta degli aristocratici, secoli dopo la prima rivivrà gli stessi torpori e vizi della seconda. Sono i corsi e ricorsi storici, come direbbe Vico; è l’eterno ritorno dell’uguale, se si volesse parafrasare Nietzsche.
Passano gli anni – cinquanta per l’esattezza – e nel 1979 l’anziano regista svedese Ingmar Bergman dirige uno dei suoi ultimi lavori per il cinema, uscito nelle sale nel 1980, Aus dem Leben der Marionetten. Un mondo di marionette. È senza dubbio uno dei suoi film più cinici e cupi, se non il più violento e sincero. Peter Egermann uccide brutalmente una giovane donna. Il film ripercorre, attraverso dei flashback, l’esistenza monotona, noiosa e inappagante del giovane Peter per comprendere il motivo per cui abbia commesso un delitto così efferato. Nell’ultimo atto di una lunga carriera Bergman decide di svelare, attraverso una pellicola scevra di manierismi, l’impietoso e marcio sistema borghese; racconta senza fronzoli l’agghiacciante mondo di un ceto senza speranza di redenzione.
Alberto Moravia ed Ingmar Bergman. Romanzo e cinema. Italia e Svezia. L’inizio di una carriera e la fine di un’altra. Opere lontane nello spazio e nel tempo, eppure così simili nello spirito di feroce denuncia di una borghesia corrotta e corrompente.
I due artisti si incontrarono, almeno sulla “carta”, quando Alberto Moravia recensì il film Persona, uscito nelle sale nel 1966. Nella critica fatta dall’autore romano si può notare una comunanza tra il suo pensiero e quello bergmaniano: una poetica cha ha in sé una critica all’inautentico e alienato mondo borghese dell’Occidente.
Gli indifferenti e Un mondo di marionette. Michele Ardengo e Peter Egermann sono personaggi molto simili: giovani intrappolati loro malgrado nel mondo borghese e che tentano disperatamente di ritrovare un autentico rapporto con la realtà attraverso un gesto sincero, genuino.
I colori, sia nel romanzo che nel film, sono assenti. Alberto Moravia, partendo dall’incipit, descrive luoghi chiusi e sempre avvolti o dalla penombra o dal buio.
«Ma Carla non accettò questa offerta; in piedi presso il tavolino della lampada, cogli occhi rivolti verso quel cerchio di luce del paralume nel quale i gingilli e gli altri oggetti, a differenza dei loro compagni morti e inconsistenti sparsi nell’ombra del salotto, rivelavano tutti i loro colori e la loro solidità […].»
L’ombra accompagna il freddo impassibile delle stanze.
«Entrarono nel freddo oscuro salone rettangolare […], non c’era lampadario ma solamente dei lumi in forma di candelabri, […]; tre dei quali, accesi, diffusero una luce mediocre nella metà più piccola del salone; l’altra metà, oltre l’arco, rimase immersa in un’ombra nera […].»
L’assenza di luce e di calore trasforma la villa della famiglia Ardengo in una squallida e mostruosa prigione. Così avviene anche in Un mondo di marionette: il regista svedese opta per una fotografia in bianco e nero. Anche in questo caso l’assenza di colore marca la soffocante chiusura degli spazi. Peter e Michele sono come dei prigionieri rinchiusi dentro una confortevole cella da incubo.
L’ombra e il freddo però sottolineano anche l’inautenticità dell’esistenza della classe borghese:una vita vinta dalla noia, in cui gli eventi e i volti si ripetono sempre uguali, come in una sorta di coazione a ripetere.
«quell’ombra, quella lampada, quelle facce immobili e stupide, e lei stessa affabilmente appoggiata al dorso della poltrona per ascoltare e per parlare. ‘La vita non cambia’, pensò, ‘non vuol cambiare.’»
Le azioni si ripetono uguali giorno dopo giorno; di ogni evento che anima la villa degli Ardengo tutti conoscono il prosieguo perché già vissuto prima. Ciò sottolinea il carattere inautentico ed alienante dell’esistenza borghese.
«ora tutti comprendevano che la gelosia della madre aveva trovato una via e l’avrebbe percorsa per intero; tutti prevedevano con noia e disgusto la meschina tempesta che si addensava in quella luce tranquilla della cena»
Questi sono la stessa identica noia e lo stesso identico disgusto che vive quotidianamente Peter Egermann e che la moglie, Katarina, non riesce a comprendere pienamente.
PETER: Tutte le strade sono chiuse, se capisci cosa voglio dire.
KATARINA: No.
PETER: No?
KATARINA: Prova a farmi un esempio.
PETER: La noia.
KATARINA: Quale noia? Non so neppure cosa sia.
PETER: Sai, una delle componenti tipiche della noia è il fatto che si prova generalmente una noia mortale quando si deve far comprendere a qualcuno che cos’è la noia.
La noia tormenta l’animo di Michele e di Peter e fa loro avvertire l’impellente necessità di un gesto sincero capace di riconnetterli alla realtà, alla vera realtà. L’immagine delle marionette e dei fantocci sottolinea questa disagevole situazione di coazione a ripetere: come burattini, i borghesi tendono a recitare sempre la stessa parte, a compiere sempre le stesse azioni.
Il mondo borghese per Ingmar Bergman è popolato da tante marionette; così è anche per Michele, quando, seduto in macchina di Leo, osserva la sua famiglia e la paragona a dei fantocci inermi.
«Essi erano là, nell’ombra, immobili, ogni scossa dell’automobile li faceva urtare tra di loro come fantocci inerti: nulla gli pareva più angoscioso che vederli così, lontani, staccati, soli senza rimedio.»
Pagine più avanti Michele si incammina verso casa di Lisa, vecchia fiamma di Leo. Durante il tragitto si ferma ad osservare un fantoccio meccanico che affila tutto sorridente un rasoio e, senza mai fermarsi, compie sempre la stessa azione.
«‘Ecco, Lisa’, si ripeteva, ‘ecco il tuo povero fantoccio dal rasoio’.»
Il mondo dei burattini ricorda anche il mondo del teatro che è il mondo dell’ipocrisia perché ogni attore finge di essere ciò che non è nella realtà. Ciò che rende ancora più inautentico il mondo borghese non è solo la noia ma contribuiscono anche la menzogna e l’ipocrisia. La «stupida» Mariagrazia ricorda a Carla: «non si può mica dir sempre la verità in faccia alla gente… le convenienze sociali obbligano spesso a fare tutto l’opposto di quel che si vorrebbe… se no chi sa dove si andrebbe a finire…» Anche Leo è ipocrita: fa credere a Mariagrazia di non volerla cacciare dalla villa perché ha buon cuore quando in realtà ritarda lo sfratto solo per sedurre la figlia Carla. I continui “da sé”, che Moravia riprende dal mondo del teatro, sottolineano questa ipocrisia di fondo.
«Tutti guardarono l’uomo: ‘Che il diavolo se la porti’ egli pensò; ma rispose “sì, sì, resterete” desideroso soprattutto di non suscitare scene e di non guastare le cose con Carla.»
In Un mondo di marionette Peter va dal suo psicologo, Mogens Jensen, per confidargli la sua ossessione di uccidere la moglie che da tempo lo perseguita. Il dottor Jensen si dimostra un amico affabile ma, quando Peter lascia lo studio, chiama subito la moglie di quest’ultimo, Katarina, facendo capire allo spettatore che intrattiene da tempo una relazione clandestina con lei.
Poche scene più avanti Katarina si confida con Tim, suo collega e amico, rivelandogli le sue turbe esistenziali. Anche quest’ultimo è ipocrita perché durante l’interrogatorio, poco tempo dopo che Peter ha commesso l’omicidio, confessa:
«Ero molto arrabbiato con Katarina Egermann, in fondo ho sempre avuto una specie di rabbia nei suoi confronti sebbene, sebbene allo stesso tempo mi piaccia. Mi piaceva l’idea che Peter la tradisse con una prostituta, anche questa è una mezza verità.»
Tim nutre per Katarina un odio profondo a causa dell’amore che nutre per Peter. Tace e favorisce la sua relazione clandestina per vendicarsi: perché sa che non lo potrà mai avere. Questo rapporto con una prostituta, come vedremo, causerà la morte di quest’ultima, vittima della noia e della disperazione del giovane borghese.
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Michele e Peter si muovono attraverso un mondo superficiale e mostruoso, vero volto della classe borghese; come vedremo nel prossimo articolo, questa atroce consapevolezza li spinge alla ricerca di una via di fuga, «una maglia rotta nella rete», per poter nuovamente riassaporare la freschezza di un’esistenza innocente, passionale e schietta.
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