Alan Bennett e un teatro che somiglia sempre di più alla vita
Nato a Leeds, classe 1934, Alan Bennett è una delle personalità teatrali e televisive più note al pubblico britannico. È impossibile avventurarsi in una libreria inglese (dalle grandi catene alle più piccole librerie indipendenti) e non notare tra gli scaffali almeno una delle sue opere che spaziano tra commedie, racconti brevi, sceneggiature o memoirs. Il faccione sorridente di Alan Bennett vi perseguiterà ovunque andrete. È inevitabile. Ma anche qui da noi non è poi così difficile trovarlo.
In Italia Bennett ha avuto, e continua ad avere, un discreto successo grazie al suo lavoro di prosa: testi fenomenali, come, La sovrana lettrice, Due storie sporchee La signora nel furgone sono certamente dei “must have” nelle nostre librerie personali, come dicono oltremanica. Quanto è conosciuto, invece, il teatro di Alan Bennett nel nostro Paese?
Non quanto meriterebbe, purtroppo, anche se non è difficile capirne le ragioni. Prendiamo, ad esempio, Talking Heads, una raccolta di monologhi in due serie scritta per la BBC e trasmessa in televisione rispettivamente nel 1987 e nel 1998, il cui enorme successo ha dato il via a una serie di produzioni teatrali che sono arrivate anche in Italia grazie all’eccellente lavoro di Anna Marchesini nel 1999 e alle più recenti versioni di Luca Torracca del Teatro Elfo Puccini di Milano nel 2018 e nel 2019 (con le traduzioni di Margaret Rose e Alessandro Quasimodo). La prima serie è stata tradotta in volume da Davide Tortorella nel 2004 per Adelphi come Signore e Signori. Già nella scelta del titolo italiano è possibile comprendere quale sia la maggiore frustrazione di un traduttore che decide di affrontare un’opera di Bennett: i famosissimi e temutissimi “cultural specific items”, ovvero quei riferimenti specifici a una determinata cultura che difficilmente trovano un preciso corrispettivo se inseriti in un contesto culturale differente. Se andiamo a vedere, infatti, cosa intende Bennett per “talking heads” ci ritroviamo immediatamente nel campo del gergo televisivo britannico, il quale utilizza questo termine come sinonimo per indicare un programma noioso. Impossibile da rendere in italiano. Il titolo, dunque, ci rivela già quale sia il nucleo identificativo del teatro di Alan Bennett: una Britishness all’ennesima potenza. Finché la traduzione è finalizzata alla pubblicazione in un volume, va ancora tutto bene: le note a piè di pagina sono un’ancora di salvezza. Se si vuole, invece, tradurre per il palcoscenico, per un’immediata messa in scena le cose si fanno leggermente più complicate.
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Questo, però, non deve scoraggiarci. La traduzione di Tortorella riesce a riportare alla perfezione la genialità di Talking Heads e del teatro di Bennett, in generale. Un teatro essenzialmente comico che fa dell’ironia la sua colonna portante. Un’ironia sottile e pungente che hanno portato Bennett a essere definito il “Woody Allen delle Midlands inglesi”. Al centro della sua visione comica c’è la sempiterna questione dell’apparenza, del “doppio”, che domina la storia del teatro dalla notte dei tempi. Ciò su cui insiste Bennett, però, è l’idea che esista un certo grado di consapevolezza in tutto ciò: possiamo fingere di essere chi vogliamo agli occhi degli altri, ma sotto sotto siamo comunque tutti un po’ deboli, disgustosi e… imbarazzanti. Questo genere di dualismo avvicina ancora di più il teatro di Bennett alla vita reale: come la vita ci regala gioie e rimpianti, così un testo teatrale può regalarci risate e lacrime insieme. Certo, la tendenza a tuffarci nell’autocommiserazione è forte, ma è proprio grazie all’ironia che possiamo uscirne: l’ironia di Bennett, infatti, include compassione e comprensione, sebbene non conforti mai del tutto. I personaggi di Signore e Signori, i protagonisti di questi sei monologhi fanno esperienza concreta di tutto ciò, dando sfogo alle loro personali idiosincrasie ed eccentricità facendoci prima di tutto sorridere e poi, sempre e comunque, riflettere.
Da Graham di Una patatina nello zucchero, che nella sua relazione ossessiva con la madre non riesce ad accettare l’ipotesi che lei si costruisca una nuova vita, passando per l’esilarante storia di Lesley ne La sua grande occasione – un’aspirante ingenua attrice che si dimostra cieca alla realtà dei fatti – fino ad arrivare alla commovente vicenda di Doris raccontata in Una fetta biscottata sotto il divano, in cui un’anziana donna deve decidere se continuare a vivere o lasciarsi morire, ci viene data l’immagine di un mondo chiuso, dalla mentalità ristretta, ma che risulta inevitabilmente comico.
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Perché leggere Alan Bennett, Signore e Signori, dunque? Le risposte possono essere tante. Per sfuggire al logorio della vita moderna, forse, citando lo slogan pubblicitario di un celebre liquore, o per dare un vago senso alle nostre stranezze e, perché no, trovare il modo di riderci su. Oppure, più semplicemente, per ritrovare il ricordo di un teatro che somiglia sempre di più alla vita.
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