Al limite del precipizio dell’amore. Intervista Mariangela Tarì
Il precipizio dell’amore. Solo appunti di una madreè questo il titolo per esteso del primo libro firmato da Mariangela Tarì, uscito per Mondadori. E non si tratta di un romanzo. Tutto quello che l’autrice racconta è frutto della realtà, della vita, sebbene a tratti sembri il plot perfetto per un romanzo esistenziale.
È la storia di una madre. Anzi, è la storia di tutte le madri. Di tutti i padri, i nonni, le nonne e gli zii, i fratelli. È la storia di una famiglia e di tutte le famiglie del mondo. Ed è una storia che perturba, che spinge a riflettere sui nostri limiti, in quanto umani, e sulla nostra finitezza.
Quello che accade è presto detto: a distanza di un anno dalla nascita della primogenita, Sofia, la bolla spensierata della neo-famiglia si buca. La piccola inizia a regredire. Ci vorrà molta pazienza e perseveranza e giri da vari specialisti per comprendere cosa sta succedendo. Sono momenti intensi nel libro; Marianagela Tarì li descrive con una lucidità straordinaria, rendendo così universale un evento particolare. Quelle stesse emozioni, quei sentimenti – sebbene in contesti diversi – li hanno provati tutti i genitori del mondo; le madri forse anche più dei padri per via di una conformazione anatomica o di un attaccamento più organico ai figli.
Non è l’unica cosa che accadde alla famiglia: nasce il secondogenito, Bruno, e, nel momento in cui, grazie a una specie di legge della compensazione o al forte desiderio di vivere dei genitori e dei bambini, si ricrea la bolla, ecco che un nuovo evento doloroso rovina loro addosso. Rialzarsi, ricostruire la speranza, la fiducia, la capacità di immaginare – non il futuro, ché è un lusso – il presente, è uno sforzo da titani.
Di come nasce il libro, del diverso, dello stupore, di come si resta in equilibrio nonostante i venti forti che cercano di sradicarci abbiamo parlato con Marianagela Tarì.
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È il suo primo libro: come nasce?
Scrivo da sempre, piccole cose, principalmente per il teatro. Il libro nasce nel 2018 quando scrivo una lettera dall’ospedale e la invio a «Repubblica», dove viene pubblicata in prima pagina. In seguito, ho ricevuto la telefonata di una persona speciale e ho iniziato così a scrivere il libro, impiegando circa otto mesi. Devo dire che l’incontro con questa persona speciale ha fatto la differenza: mi aveva detto che scrivo bene e questo mi ha dato coraggio.
Mi sono chiesta a lungo perché scriverlo. Non volevo scrivere qualcosa solo per me. Volevo raccontare la mia storia per portare l’attenzione sulla disabilità di cui nessuno ne parla. La disabilità allontana; il tumore avvicina. Volevo quindi dare voce a chi non ha più le forze per farsi sentire.
Dice a un certo punto: il segreto è saper star fermi davanti a chi non ti assomiglia…
Di professione sono un’insegnante di sostegno per cui ho avuto spesso modo di notare questo: ciò che non ci assomiglia, ci spaventa. In quanto mamma di Sofia, a scuola, le altre mamme mi trattano in modo diverso perché io rappresento qualcosa che loro non vogliono vedere. Sono certa, però, che se volessero guardare, vedrebbero che ci assomigliamo: il lato umano ci accomuna.
Il fatto è che non siamo più abituati a confrontarci con i nostri limiti. Mia nonna mi raccontava che un tempo i figli disabili dei vicini erano i figli di tutti, della comunità. Ora, ciò che non è perfetto ci spaventa poiché ci costringe a pensare i fatti scomodi della vita, come la morte, la malattia. Ma noi non siamo degli dèi. La morte e la malattia sono parte della nostra esistenza.
Lo stupore ti dice che sei piccolo e ti ricorda che puoi essere grande. Come si fa a non perdere la capacità di stupirsi?
Secondo me, per non perdere la capacità di stupirsi non bisogna mai perdere le domande. Per esempio, io ho ancora moltissime domande su mio marito, nonostante siamo sposati da tantissimi anni; per me, lui è ancora un’incognita. Sofia stessa è un’incognita per me. Bisogna sforzarsi di farsi domande.
Poi, lo stupore è strettamente legato alla dimensione dell’agire.
Per esempio, mi è stato detto in questi giorni che alle scuole medie sarà molto difficile mantenere certe condizioni che al momento siamo riusciti a creare durante le elementari. Il pensiero mi sconforta, ma la domanda che mi pongo è: cosa e come posso fare per migliorare questa eventuale situazione? Mi pongo la domanda e inizio a fare, e mi stupisco di ciò che questo fare produce.
Mi rendo conto che certe volte è difficile tenere la porta aperta, occorre molta forza, specie se si è soli e sopraffatti dalla realtà. Aprirsi, però, significa agire e, come dicevo prima, da lì arriva lo stupore perché si possono creare nuove situazioni a cui non si era pensato.
Ci vuole moltissima forza per affrontare tutto quello con cui ha dovuto (e deve) misurarsi. Dove l’ha trovata?
Credo sia una componente caratteriale; un carattere modellato dagli insegnamenti che ho ricevuto nella vita, dalla famiglia. Credo sia importante prepararci sin da piccoli a ciò che succede da grandi. È un modo per rifornirci degli strumenti necessari per poterci salvare, all’occorrenza. Sono gli strumenti personali che ti permettono di salvarti, la società non li possiede.
Personalmente, l’agire – come dicevo prima – è stato l’antidoto alla depressione. Per esempio, ho istituito un’associazione e questo mi ha obbligato, appunto, a continuare ad agire.
Se la malattia colpisce un adulto, scivolare nella depressione è un gesto quasi naturale. Quando colpisce i bambini, però, ti ritrovi costretto a inventare le energie, se non ne hai più, e continuare a fare perché loro dipendono da te e spesso non sono nemmeno consapevoli di essere malati, o quanto siano malati.
Questa domanda è, in qualche modo, correlata alla precedente: la valvola di sfogo qual è?
Direi la scrittura, ma anche la mia famiglia. Intendo dire, la mia valvola di sfogo è creare momenti di vita con la mia famiglia; come andare a pesca e vivere come se non ci fossero le malattie, sforzarsi di farlo. Cioè, sforzarsi di vivere anche quando costa una fatica immensa.
Trovo uno sfogo anche nelle poesie, nei film, nei libri.
Poi, bisogna dire che il dolore non si supera mai; sono piena di dolore, è sempre lì. Intervengono meccanismi mentali che lo mettono in un posto in secondo piano, ma è sempre attivo. Al contempo, il dolore diventa anche il motore che produce incidenti felici, sebbene non si dissolva mai.
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In che modo è cambiata la vostra vita durante l’emergenza sanitaria?
Lo so, siamo stati sadici a pensarlo e anche a dirlo, ma la nostra prima reazione è stata quella di pensare che il mondo intero si trovava in uno stato di emergenza che è il mio stato permanente. Noi siamo così dalla nascita dei nostri figli e fino alla loro morte, che si spera avvenga giusto qualche momento prima della nostra.
Ci siamo detti – sempre con questo spirito un po’ sadico – ora capiranno cosa significa non poter programmare il domani. Succede al mondo quello che succede a noi: si perdono il lavoro, i soldi, il sonno.
Una magra consolazione, ovviamente, un pensiero che se n’è andato com’è arrivato, poiché d’altro canto il Covid è stato una tragedia per i bambini. I servizi erano già poco esistenti. Per fare un esempio: ci si fa la doccia solo se entra in casa una persona e questo non può più succedere da un anno. Nemmeno le babysitter possono esserci d’aiuto. La DAD non è fattibile.
Personalmente, mi ritrovo nella circostanza in cui sono sia la mamma di una bambina con disabilità sia un’insegnante: mi ritrovo, quindi, a non riuscire a dare il massimo in nessuna delle due situazioni e questo è molto frustrante.
La legislazione sui caregiver è davvero carente; per esempio, non esiste una lista prioritaria per quanto riguarda la vaccinazione sebbene la vita di chi curiamo dipenda interamente da noi.
Il Covid ha amplificato tutte le difficoltà.
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