“Al giardino ancora non l’ho detto” di Pia Pera, il giardiniere e la morte
L’incipit, dopo il prologo, è fulminante: «Un giorno di giugno di qualche anno fa un uomo che diceva di amarmi osservò, con tono di rimprovero, che zoppicavo. Non me n’ero accorta. Era una zoppia quasi impercettibile, poco più di una disarmonia nel passo, un ritmo sbagliato. A lungo non se ne comprese il motivo». Forse perché si parlava di zoppia ma queste frasi mi hanno fatto venire in mente Tommaso Landolfi (che nel corso del libro viene anche citato), con i suoi racconti pieni di personaggi storpi e deformi.
La deformità di cui scrive Pia Pera nel suo libro Al giardino ancora non l’ho detto, edito da Ponte alle Grazie, è l’effetto di una malattia degenerativa (quella del motoneurone) che l’ha colpita negli ultimi anni, a partire appunto dalle gambe. Una malattia che porta alla completa paralisi del corpo. Tutto questo mentre il cervello è perfettamente lucido e registra le modifiche che gli altri organi sono costretti a subire.
Pia Pera, scrittrice e studiosa di letteratura russa (ha tradotto, tra l’altro, testi di Puskin e di Cechov), si è occupata negli anni con sempre maggiore passione e determinazione dei temi della natura, del paesaggio e del giardinaggio. Tiene una rubrica sulla rivista «Gardenia» e ha promosso l’iniziativa degli orti di pace, un progetto che ha a cuore la sensibilizzazione dei cittadini, a partire dalle scuole, per la terra e le sue immense potenzialità. Perché come si legge nel sito dedicato a questa iniziativa: «occorre imparare di nuovo l’abbiccì del rapporto con la Natura». Ora la malattia impedisce a Pia di vivere pienamente proprio questo rapporto; nel caso specifico col suo podere, col suo splendido giardino in provincia di Lucca. Un giardino che non potrà più curare personalmente, e a cui dovrà dire addio. Ed è proprio da qui che deriva il titolo del libro, un verso di una poesia di Emily Dickinson: I haven’t told my garden yet.
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Come reagire al proprio inarrestabile declino fisico? Che forma dare all’inevitabile congedo dalla vita, dagli affetti (ad esempio, l’amatissima Macchia, la sua cagnetta fox terrier), dalle cose più care al cuore (tra cui i tanti libri che avrebbe voluto ancora leggere)? Come confrontarsi con quello che Susan Sontag, in Malattia come metafora, definisce «il lato notturno della vita»?
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È un diario di viaggio quello dell’autrice, un diario spietatamente sincero quando si capisce che la morte ha bussato con netto anticipo sulla normale tabella di marcia. Un anticipo che non ha permesso di metabolizzare per tempo le cose da fare, da sistemare. È normale quindi che l’autrice si “aggrappi” agli “exempla” di chi l’ha preceduta in questo drammatico cammino nelle terre della decadenza fisica, magari in prossimità proprio di un giardino.
Pia Pera ci racconta così di Derek Jarman, il regista inglese malato di Aids, che dedicò l’ultima parte della sua vita a curare un giardino di ciottoli a Prospect Cottage, nella regione del Kent. «Jarman rinnega il cinema per il giardino – “Non avrei mai dovuto fare cinema, è una cosa da idioti. È occuparmi del giardino quello che voglio”… E continua: il giardino è il posto ideale per morire, c’è la magia, magia della sorpresa; è una terapia, una farmacopea».
Intanto, la vita di Pia, lei che aveva scelto consapevolmente l’eremitaggio dentro il regno fatato del suo giardino, comincia a essere affollata di tante, troppe persone («Uno degli aspetti più sgradevoli della malattia è che priva della solitudine»). Tutti i medici, i fisioterapisti, i “ciarlatani” delle cure alternative (ad esempio, quelli che le dicono che la sua malattia dipende dall’inquinamento elettro-magnetico) che alla fine non arrestano il declino del suo corpo, ma hanno soltanto l’effetto di far crescere in lei una rabbia, che poi i colori sempre sorprendenti del giardino hanno il potere in qualche modo di sopire, lenire.
L’autenticità della confessione è espressa dal raccontare anche le sgradevolezze, in passato, del suo carattere: ad esempio, il non sopportare proprio i malati, i degenti, tutte le persone, insomma, che soffrivano. La scrittrice non fa sconti alla Pia della “vita precedente”, perché in quel vecchio sentire forse pensa che si nasconda anche il segreto, la “metafora” della sua malattia: “Andavo di fretta. Con le gambe, con i giudizi. Gli ausili per gli invalidi suscitavano la mia impazienza: ma perché non si levano di torno, questi incapaci? Per i malati, nessuna compassione – col sovrappopolamento che c’è, cosa la fanno tanto lunga, perché non se ne vanno?... La debolezza m’ispirava paura e repulsione. Forse per il piacere selvaggio della rapidità fulminea, dell’efficienza, del buon funzionamento. Da chi era lento, incapace, inetto, occorreva allontanarsi come da uno scandalo... E così, questo lento morire mi costringe a conoscere ciò da cui mi ero sempre tenuta alla larga: l’essere deboli, lenti, indifesi, inefficienti, privi di energia».
Ora Pia assomiglia sempre di più a una delle piante del suo giardino: ha bisogno che qualcuno si prenda cura di lei. Diventa «sorella di tutto quanto vive nel giardino». Il tempo presente annienta il passato e le cose magari trascurate. Così la vita che rimane è aprirsi alla suprema bellezza di quello che rimane (i fiori e le piante del giardino, Macchia, l’amicizia anche di Marinella che vive giorno e notte attaccata a un respiratore) e farne parte, e amarla intensamente, abbracciandola fino a che gli occhi si chiuderanno. Anche se fuori, come recita la poesia di Stevenson, il cielo sarà ancora così chiaro e azzurro.
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