“Africa”, omaggio petrarchesco al classicismo
Il poema Africa fa parte delle opere latine di Petrarca, e, anche se oggi è considerato opera di secondo piano, proprio a essa il poeta aveva affidato la sua gloria letteraria e la sua fama ai posteri. Fu grazie all’Africa che, con l’ausilio della famiglia Colonna, Petrarca venne incoronato poeta in Campidoglio nel 1341, dedicando lo scritto al re Roberto d’Angiò, rimasto entusiasta dopo la lettura di alcuni passi.
In un’epistola, Petrarca racconta che l’idea gli venne durante una passeggiata in Val Chiusa un Venerdì Santo; il progetto iniziale prevedeva ben dodici libri, ma il testo rimase incompiuto e si diffuse dopo la morte del poeta.
La notizia della stesura del poema destò curiosità ed entusiasmi tra gli intellettuali e i circoli letterari dell’epoca, poiché il giovane Petrarca aveva tutta l’intenzione di far rivivere la classicità, l’epica del mondo antico. L’opera è, infatti, redatta in esametri latini e conta nove libri, sebbene alcuni presentino parti mai terminate: in particolare, sono incompleti i libri IV, V e IX. Il poema narra e glorifica le imprese di Scipione Africano (236-183 a.C.) e la grandezza romana repubblicana durante la fine della seconda guerra punica.
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I primi due libri sono dedicati al sogno di Scipione, a cui appare il padre deceduto durante le battaglie con i Cartaginesi; egli inizia a narrare la storia passata dell’Urbe, e ne profetizza la futura grandezza fino ad Augusto; nello stesso momento, Lelio è invitato in Africa, e sconfigge Siface, traditore dei Romani. Dopo il racconto del terzo libro che si svolge nella reggia di Siface, e il quarto ampiamente lacunoso, Petrarca pone l’attenzione su due episodi: la tragica storia d’amore tra Massinissa e Sofonisba, e la morte di Magone, il fratello di Annibale. La triste vicenda amorosa occupa interamente il libro V: Sofonisba, moglie di Siface, è innamorata di Massinissa, re alleato di Roma. Scipione li costringe a separarsi, e, per evitare che la donna diventi prigioniera dei Romani, Massinissa stesso procura il veleno con cui Sofonisba si suicida in un tragico finale.
Nel libro successivo, il VI, si svolge l’altrettanto drammatico episodio di Magone. Scipione macina vittorie, e Annibale decide di tornare a Cartagine; il giovane fratello Magone è pronto a unirsi a lui, ma viene gravemente ferito durante una battaglia in Italia, e morirà sulla nave che lo sta riportando in Africa.
Nei libri VII e VIII, Annibale è ormai sbarcato sulle coste africane, ed è pronto a difendere Cartagine dall’assalto romano; Scipione è però vittorioso a Zama, e i Punici chiedono la pace inviando un’ambasceria a Roma. Nell’ultimo libro, Scipione, dopo aver elogiato il coraggio di Annibale, torna in Italia; durante il viaggio parla con il poeta Ennio, al quale Omero appare in sogno ed elenca tutti i futuri grandi poeti latini, compreso lo stesso Petrarca. Scipione giunge a Roma tra onori e trionfi, e il testo si conclude con la dedica a Roberto d’Angiò.
La fonte storica di Petrarca è l’opera di Tito Livio, i libri dell’Ab Urbe condita, in particolare la terza deca, mentre i caratteri prettamente epici sono eco dell’Eneide virgiliana. Il poeta attinge da Virgilio per definire i personaggi, sviluppare gli schemi della narrazione, ed è impossibile non vedere il substrato virgiliano nella dolorosa vicenda di Sofonisba: il quinto libro dell’Africa è sovrapponibile al quarto dell’Eneide, al tragico amore di Enea e Didone che si concluderà col suicidio della regina cartaginese.
Benché il protagonista sia Scipione trionfatore, l’opera mira a celebrare la grandezza di Roma, la glorificazione è tutta per la repubblica romana, ma, va sottolineato, non in toni esclusivamente epici: Petrarca pone mano ai temi classici dell’epica integrandoli con la sua sensibilità e le sue concezioni. La gloria diviene allora anche mera vanità, e si ricorda come le cose umane siano transeunti, inevitabilmente prigioniere della caducità. Il testo ha i suoi momenti più emozionanti proprio negli attimi drammatici, durante l’amore o la morte, nei quali la poesia giunge al più elevato lirismo, mentre la parte prettamente storica è una pedissequa messa in versi della cronaca di Tito Livio, seppur versi raffinati; neppure il diverso temperamento di Romani e Cartaginesi è troppo approfondito, semplicemente è contrapposto: i Romani descritti come eroici e virtuosi, i Cartaginesi come barbari.
Ma l’Africa resta un’opera importante che mostra due elementi fondamentali della concezione petrarchesca: in primis, l’uso del latino, che per il poeta avrà sempre valore universale e incomparabile dignità, concepita come lingua stessa della letteratura, vera continuità col mondo classico; in secondo luogo, l’integrazione di classicismo e cristianesimo, i due pilastri della cultura medievale. Petrarca guarda ai grandi classici come prodromi della moralità e dell’etica cristiane, sebbene avessero operato in diverso contesto. E così, anche nell’Africa i Romani trionfano per volontà divina, i valori classici sono arricchiti da quelli cristiani, e si intravede il filone culturale che sboccerà con l’Umanesimo; il poema avrà, infatti, grande fortuna nei secoli xv e xvi, e anche Tasso ne prenderà numerosi spunti per la sua Gerusalemme liberata.
A questo proposito, è interessante notare il discorso fatto pronunciare a Magone prima di morire, una volontaria aggiunta di Petrarca che certamente non compare nella fonte storica latina di Livio. Proprio questo passo è l’unico a circolare quando Petrarca è ancora vivo, tanto da valergli critiche e accuse di anacronismo, poiché le parole di Magone sono palesemente segnate dal cristianesimo; Petrarca fa notare che non vi è alcuna riflessione riferita alla dottrina cattolica, semplicemente vi è la riflessione dettata dalla ragione di un uomo conscio di essere vicino alla morte. Nelle parole di Magone, in qualsiasi senso si vogliano vedere, emerge però il lirismo del poeta con tutta la sua forza:
“Quam letis mens ceca bonis! furor ecce potentum
precipiti gaudere loco. Status iste procellis
subiacet innumeris et finis ad alta levatis
est ruere. Heu tremulum magnorum culmen honorum,
spesque hominum fallax et inanis gloria fictis
illita blanditiis! heu vita incerta labori
dedita perpetuo, semperque heu certa nec unquam
sat mortis provisa dies! heu sortis inique
natus homo in terris!”
Come s’acceca la mente nei lieti successi! Una pazzia dei potenti è questa,
godere in un’altezza vertiginosa. Ma quello stato è soggetto a procelle
innumerevoli, e chi s’è elevato in alto
è destinato a cadere. Ahi, sommità vacillante dei grandi onori,
speranza fallace degli uomini, gloria vana
rivestita di falsi allettamenti. Ahimè, come incerta è la vita,
dedita a una fatica perpetua, come certo è il giorno di morte,
né mai previsto abbastanza. Con che iniqua sorte
è nato l’uomo sulla terra!
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Il tema è lirico, Petrarca proietta i suoi valori in Magone, che diviene così non solo personaggio ma portavoce della visione petrarchesca, latore della cultura del poeta.
In seguito, Petrarca passerà a un tipo di letteratura diverso, e ciò, probabilmente, ha contribuito a lasciare l’opera incompiuta; il poeta si orienterà verso l’indagine introspettiva, ritenendo quasi una vana ricerca di gloria completare il suo poema. Il dibattito interiore tra il desiderio di finire lo scritto e quello di abbandonarlo è eccezionalmente reso nel finale del Secretum; Agostino si rivolge a Francesco dicendo: “Dimitte Africam, eamque possessoribus suis linque; nec Scipionis tuo nec tibi gloriam cumulabis” / “Abbandona l’Africa e lasciala ai suoi possessori: non aggiungerai gloria né al tuo Scipione né a te”. A questa esortazione Petrarca non saprà dare una soluzione finale.
Riferimenti bibliografici
Francesco Petrarca, in Storia e antologia della letteratura. Dalle origini al Trecento, Tomo 1, Bergamo, ATLAS, pp. 365-468.
Petrarca F., Secretum. Il mio segreto, a cura di E. Fenzi, Milano, Mursia, 1992.
Rime, Trionfi e poesie latine, a cura di F. Neri, G. Martellotti, E. Bianchi, N. Sapegno, Ricciardi, Milano-Napoli, 1951.
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