Achab e la Balena Bianca, la sfida umana al divino
Nel 1851, a Londra e New York, viene pubblicato Moby Dick; sebbene il successo tra il pubblico non sia immediato, il racconto di Melville è destinato a divenire un classico immortale nel panorama letterario, ispiratore di altri racconti e di pellicole cinematografiche. La Balena Bianca descritta da Melville è tra i protagonisti letterari più conosciuti, ormai entrata nell’immaginario collettivo come il mostro implacabile e, soprattutto, impossibile da catturare che attacca e affonda le navi che incontra.
Ma è possibile intravedere qualcos’altro dietro l’immagine del mostro? Si potrebbero azzardare ipotesi su eventuali simbologie legate alla Balena Bianca?
In effetti, la trama del romanzo è piuttosto semplice: il narratore della vicenda, Ismaele, o almeno così afferma di voler essere chiamato, si imbarca sulla baleniera Pequod, agli ordini del capitano Achab, il quale solo a viaggio iniziato dichiara di voler dare la caccia a Moby Dick. Il viaggio si tramuta così in un inseguimento attraverso gli oceani, fino all’epico scontro finale con la Balena.
Ismaele narra in prima persona, coinvolgendo così il lettore nei suoi pensieri. Appare chiaro, ad un certo punto della narrazione, che non è così scontato individuare l’antagonista nel mostro.
Achab è inizialmente una figura misteriosa; Ismaele non lo vede durante i primi giorni di navigazione, ma ne avverte solo i passi la notte sul ponte. Non si vede Achab e ancora nulla si sa di Moby Dick, i due avversari restano nell’ombra. Quando compare, la figura del capitano è ricca di fascino e carisma: lo sguardo è deciso e severo, il volto temprato dai viaggi di mare, e al posto di una gamba porta un osso di balena. Proprio Moby Dick è responsabile della menomazione di Achab, ed egli ha giurato vendetta.
La caccia alla Balena Bianca è la caccia di Achab verso la sua ossessione, per riuscire là dove l’impresa pare impossibile. Durante la navigazione, il Pequod incontra varie navi devastate dalla furia del mostro, ascolta notizie di equipaggi uccisi, ma tutto ciò spinge ancor più il capitano verso il suo intento.
Quasi navigasse a fianco di Ismaele, il lettore comincia, come lui, a pensare che non solo Moby Dick sia impossibile da cacciare, ma che non si “deva” cacciare; essa aleggia lungo le pagine del racconto come un’entità, non si vede ma la sua presenza è costante, nelle storie, negli scafi malandati delle navi che l’hanno incontrata, nelle parole di Achab che la descrive come un demonio sanguinario.
Seguendo questa prospettiva, la Balena Bianca è il male, è la devastazione, un demone da eliminare; difficile dimenticare le parole del capitano che, mentre forgia il metallo col sangue dei tre ramponieri, dice: “Ego non baptizo te in nomine Patris, sed in nomine diaboli!”. Moby Dick assume le sembianze di un grande demone bianco, e proprio il candore che lo riveste lo fa apparire ancora più subdolo, una maschera di purezza che cela la malvagità. La frase sacra del battesimo volta nella perversa formula di Achab sembra indicare senza dubbio che egli ha tutte le ragioni nel voler annientare non solo l’essere che lo ha privato di una gamba, ma l’incarnazione stessa del male.
Ma spostiamo ora lo sguardo nella prospettiva di Ismaele. Il nostro narratore ammira la determinazione di Achab, lo rispetta come capitano, eppure comprende che la sua personale caccia è guidata dal delirio. Quando, finalmente, Moby Dick viene avvistato, Achab sprofonda nella follia.
La visione del gigante bianco esalta invece Ismaele, che ne resta affascinato: “nemmeno Giove, non la sua grande suprema Maestà!, superò la gloriosa Balena Bianca mentre così divinamente nuotava”; Moby Dick incarna qui il divino, è il grande dio bianco che sconvolge il narratore. La sua apparizione lo rende, d’altra parte, un essere quasi soprannaturale: la mole è gigantesca rispetto ai cetacei incontrati lungo il viaggio, e il suo corpo è trafitto in più punti da arpioni e oggetti metallici, a dimostrare come ogni tentativo di cattura fosse da sempre stato vano.
Il divino sembra irrompere nel racconto, connotato da una forte simbologia. Innanzitutto la caccia dura tre giorni; la mattina del terzo giorno, la divinità bianca pone fine a tutto: difficile ignorare il rimando biblico. Moby Dick diviene sempre più la divinità che l’uomo osa sfidare, e le parole che il primo ufficiale Starbuck rivolge ad Achab ne sono la conferma: “Moby Dick non ti cerca. Sei tu, tu, che insensato cerchi lei”.
E la Balena si rivelerà un dio dotato di un’intelligenza spiazzante. Non è più il Pequod che caccia la Balena, ma è la baleniera a divenire preda, a essersi creata il suo destino. Achab si è spinto tanto in là da aver superato un limite oltre il quale le parti si sono invertite. La Balena ribalta le lance su cui si trovano Achab e i ramponieri, dopodiché si dirige verso il Pequod per affondarlo; Ismaele è terrorizzato e affascinato al tempo stesso dalla sua astuzia, dal suo agire, ed è l’unico a salvarsi dal naufragio. In una lettura che vede Achab e l’equipaggio simbolo dell’umano e Moby Dick simbolo del divino, Ismaele potrebbe essere stato risparmiato in quanto non ha mai nascosto il suo rispetto verso il dio bianco.
Il viaggio della baleniera si potrebbe dunque leggere come la sfida dell’uomo che vuole superare i propri limiti e annientare ciò che ancora lo lega alla divinità: spingersi oltre e conoscere ciò che gli sarebbe precluso. Per bocca dello stesso Achab, Moby Dick viene definito come un muro che imprigiona l’umanità.
Si avverte l’eco del “folle volo” dell’Ulisse dantesco. Allora i limiti imposti erano le Colonne d’Ercole oltre le quali il mondo conosciuto terminava. I celebri versi con cui Ulisse esorta i compagni a non “viver come bruti/ma per seguir virtute e canoscenza” sembrano fare da sottofondo nell’altrettanto celebre episodio in cui Achab incastona un doblone d’oro nell’albero della nave, promettendolo come ricompensa a chi per primo avvisterà Moby Dick, dando il segnale che il limite da valicare è giunto. Ulisse e Achab seguono la loro ossessione, entrambi a un certo punto si trovano dinanzi a una montagna bianca invalicabile: il monte del Purgatorio per Ulisse, la Balena per Achab.
Sorge qui, però, una differenza fondamentale: Ulisse sfida l’ignoto per brama umana di conoscenza, sfida il divino e viene affondato dal Dio cristiano; Achab non vuole solo sfidarlo, ma lo vuole annientare.
Ulisse è condannato a essere una lingua di fuoco nell’Inferno, e Melville descrive i tre urli delle vedette che avvistano la Balena proprio come tre lingue di fuoco. Il parallelismo tra il viaggio di Ulisse e quello del Pequod tocca il suo apice nel tragico finale. Moby Dick trascina con sé dapprima Achab, per poi creare un gorgo che inghiotte la nave intera e tutto l’equipaggio, non diversamente dal grande mulinello che si crea sotto la nave di Ulisse, che per tre volte vortica inabissandola. E così come Ismaele vede il mare tornare calmo, allo stesso modo il mare di Ulisse “fu sovra noi richiuso”.
La sfida al divino è fallita, entrambi si sono riscoperti soltanto uomini con i propri limiti. Resta appunto Ismaele, l’unico sopravvissuto, colui che non si è voluto spingere oltre, che sinceramente ha temuto e ammirato ciò che sapeva essere più grande di lui.
E non è allora, forse, un caso che la nave che lo trae in salvo si chiami Rachele; il nome deriva dall’ebraico e significa “mitezza”, e nell’esegesi biblica la figura di Rachele è simbolo della vita contemplativa. Ismaele ha lasciato l’ossessione della vita attiva che mirava ad annientare la divinità, ha abbandonato la follia, e viene salvato dalla contemplazione e dalla vita mite che riportano pace tra l’uomo e la divinità.
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