“A Silvia” di Giacomo Leopardi – Analisi
A Silvia di Giacomo Leopardi, la cui analisi proponiamo in quest’articolo, è uno dei componimenti più famosi e celeberrimi del poeta di Recanati.
La poesia rientra nei Grandi Idilli, collocati temporalmente fra il 1828 e il 1830. La raccolta differisce dai Piccoli idilli del 1819-1821 poiché le tematiche principali della seconda raccolta sono volte alla riflessione oggettiva sulla miseria della condizione umana. I Piccoli idilli, invece, sono volti alla meditazione sulle vicende personali del poeta, ovvero, i temi prevalenti contengono, per lo più, analisi, impressioni e pensieri soggettivi.
Pare che A Silvia sia stata composta da Giacomo Leopardi fra il 19 e il 20 aprile del 1828, e pubblicata per la prima volta nel 1831 nell’edizione dei Canti. Nel componimento A Silvia appare anche uno dei concetti preponderanti del pensiero leopardiano: il pessimismo cosmico, l’idea di un’infelicità insita nella stessa vita dell’uomo che è quindi destinato a soffrire per il resto della sua esistenza. Appare nella sua interezza quella che per Leopardi è la natura matrigna: la natura intesa come un organismo incurante dei mali dell’uomo che procede nel suo compito primordiale di prosecuzione della specie, attraverso un meccanismo crudele come quello di far nascere l’uomo per poi destinarlo alla sofferenza.
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Letteralmente, in A Silvia Giacomo Leopardi rievoca per lo più pensieri e situazioni legate alla sua giovinezza. Protagonista è, infatti, una giovane figura femminile che Leopardi conobbe davvero nel corso della sua vita, identificabile con Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi deceduta di tisi dieci anni prima. La figura di Silvia diviene così simbolo della disillusione che introduce alla vita adulta lasciando alle spalle una giovinezza che volge al termine. Il componimento può essere identificato più come un’elegia che attinge lo stile e la metrica dalla stessa condizione esistenziale e realmente vissuta dal poeta: Leopardi, infatti, è costretto a una permanenza forzata a Recanati a causa delle precarie condizioni di salute. Dal momento che non può vivere una libertà oggettiva nella vita reale, prova a viverla dissolvendo, nella scrittura, le norme e le regole proprie della poesia classica: lo stile metrico di A Silvia di Giacomo Leopardi si basa su un’alternanza di endecasillabi e settenari che conduce la poesia a non avere nessun tipo di schema fisso. Anche le rime non seguono alcun tipo di schema preciso e anzi sembrano poste nei passaggi descrittivi del canto quasi a sottolineare la rassegnazione e lo sconforto del poeta. L’idillio è composto da sei strofe in tutto, di cui la prima funge da introduzione ed è la più breve; la seconda e la terza sono le più lunghe e appartengono al corpo centrale insieme alla quarta strofa, che collega la prima e la seconda parte della poesia, mentre la quinta e l’ultima strofa sono parallele e conclusive.
Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi?
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L’appellativo di “Silvia”, che Leopardi sceglie per alludere alla figura storicamente identificabile con Teresa Fattorini, è tratto dall’Aminta di Torquato Tasso, uno degli autori maggiormente apprezzati da Leopardi. Silvia però non è solo un personaggio storico identificato o da identificare, ma è anche simbolo della giovinezza, del vago fantasticare proprio di questa età, delle trepidazioni e delle speranze stroncate troppo presto da una morte prematura che mette fine a tutte le illusioni. La relazione che intercorre fra la giovane ragazza e il poeta non è una storia d’amore: Leopardi si sente vicino alla ragazza per la comune condizione giovanile fatta di fantasticherie, sogni e speranze spesso destinate alla delusione. L’idillio che si apre tracciando una dimensione vaga e immersa nella malinconia, riprende la poetica della ricordanza. L’uso del vocativo accanto al nome proprio di persona denota il ricordo e la vaghezza di quella rimembranza che deve identificarsi come principale sentimento poetico collocato nell’indefinito, come chiarisce anche un passo dello Zibaldone. La figura retorica «ridenti e fuggitivi» che pone i due termini in endiadi come lieta e pensosa»,implica sia un rimando alla bellezza della vita propria della gioventù, quanto alla sofferenza che attende la vita stessa, fatta sì di speranza, ma anche di timori.
Sonavan le quiete
stanze, e le vie dintorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all’opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno.
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Tutto l’idillio è pervaso da un senso di vaghezza e di indefinito. Non ci sono descrizioni o particolari estetici che rimandano alla figura di Silvia, nessun dettaglio concreto o fisico: gli unici accenni sono lo sguardo ridente e luminoso della figura femminile del componimento che ne sottolinea l’atteggiamento spensierato, proprio dell’età giovanile. Nessuna descrizione che determini l’ambiente circostante, poiché anche qui il poeta utilizza alcuni aggettivi che evocano vaghezza e ricordo: quiete, odoroso. Il «maggio odoroso» è inteso da Leopardi non solo come l’esplodere della stagione primaverile ma è anche un chiaro riferimento al fiorire della vita, alla giovinezza e alla speranza, temi principali dell’idillio.
Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d’in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno.
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La quarta strofa si apre con dei chiasmi, «studi leggiadri» e «sudate carte», che, , rappresentano le due grandi passioni di Leopardi, ovvero la poesia e gli studi, a lui cari. Anche qui ritorna il sentimento del vago, dell’evocazione, gli aulicismi come «veroni», che rappresentano l’elemento fisico definito dalla finestra del «paterno ostello» la quale contribuisce a rendere la dimensione immersa nel ricordo: la finestra è come la siepe dell’Infinito, poiché limita il contatto reale e scatena l’immaginazione del poeta. A conclusione della strofa, Leopardi non esprime alcun sentimento d’amore, ma di nuovo una condizione esistenziale condivisa, una giovinezza non ancora turbata dalle amarezze della vita.
Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?
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Il climax con cui si apre la quarta strofa indica sia i moti d’animo che una commemorazione: la ricordanza e la memoria di Leopardi, in quanto Silvia è nei ricordi del poeta in tutto l’idillio, ma è con il termine «speme» che ci si ritrova di fronte al vero tema della poesia. La morte di Silvia rappresenta, infatti, anche la morte delle illusioni giovanili del poeta: è con questa amara presa di coscienza che Leopardi si scaglia contro la natura che promette, ma che alla fine non mantiene le promesse fatte.
Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d’amore.
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Gli occhi ridenti e fuggitivi sono qui messi ormai, in contrapposizione alla rassegnazione della tisi che colpisce Silvia e la rende più fragile, «combattuta e vinta». L’aggettivo «tenerella» rappresenta la delicatezza di un essere indifeso ma, al contempo, la fragilità di tutta la razza umana. Il ricordo concorre a spegnere le illusioni del periodo giovanile in modo assoluto, poiché non possono più esser vissute con ingenuità come nella giovinezza, ma sono interrotte dalla consapevolezza della realtà.
Anche peria fra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovanezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell’età mia nova,
mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? Questi
i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi
onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell’umane genti?
All’apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.
L’iperbato con cui si schiude la strofa finale rappresenta la sorte del poeta che si sovrappone alla figura di Silvia: un finale amaro che indica il destino comune a tutta l’umanità. Le anafore ripetute come interrogativi che il poeta si pone sono simbolo delle speranze distrutte dall’età adulta, prima, e infine dalla morte. Questi ultimi versi rappresentano un’immagine che allude al concetto di pessimismo cosmico leopardiano consapevole del fatto che la natura è fonte di illusioni e che la sofferenza è inevitabile per l’uomo.
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Nonostante la poesia si chiuda con un’immagine lugubre è interamente pervasa da un senso di gioia: l’uomo non deve rassegnarsi alla sofferenza ma nel dolore non rinunciare al diritto alla felicità.
L’analisi di A Silvia di Giacomo Leopardi ci rivela come si tratti di un inno di protesta alla natura matrigna.
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