“A pesca nelle pozze più profonde. Meditazioni sull’arte di scrivere racconti” di Paolo Cognetti
Paolo Cognetti ci porta con sé A pesca nelle pozze più profonde, senza la pretesa di addestrarci all’arte di scrivere racconti ma suggerendoci, quasi in punta di piedi, in quel silenzio monacale e pieno d’ascolto che richiedono la pesca e la scrittura,«il modo di vedere l’invisibile attraverso il poco che si vede», il modo di «leggere l’acqua».
L’autore, finalista del Premio Strega 2013 con il romanzo Sofia si veste sempre di nero, edito da minimum fax come il resto delle sue opere, ha meditato senza egotismi –pur tra qualche pennellata autobiografica – sulla costruzione del racconto. Il lettore che riesca a destreggiarsi nel volteggio della lenza per la pesca a mosca riuscirà ad arpionare un libro delicato e compiuto come la sfera di cui parlava Cortázar per designare l’essenza del racconto, «la forma geometrica più perfetta nel senso che è totalmente racchiusa in sé stessa».
Le definizioni di racconto sono infinite e senz’altro tutte inadeguate, incompiute, scivolano via come anguille. Forse perché il racconto è una narrazione incompleta, lascia sempre fuori un pezzo di storia, un prima, un dopo. È come se l’autore dichiarasse un’impossibilità a raccontare tutto, confessasse un limite e invitasse (sfidasse?) il lettore a provare a indovinare il non detto. Per Cognetti, il racconto è il momento esatto in cui tutto cambia, è quella variazione di luce che forse nemmeno le foto riescono a catturare in modo così preciso. Lo scrittore vede, ricorda e trasmette, senza la presunzione di aver capito tutto. C’è un filo invisibile che lega una voce udita, l’orecchio di chi scrive e poi la sua mano; lo diceva Grace Paley, una delle autrici-guida citate in questo libro. Saper ascoltare è la responsabilità più grande dello scrittore, un atto di piena maturità, se consideriamo che prendere la parola è invece il primo gesto di ribellione dell’infanzia.
Partorire racconti è intrecciare il mistero (dei personaggi di cui si scrive non si sa mai tutto) con l’ascolto e la compassione che ci vive dentro, cioè con quella «capacità tipicamente umana di soffrire per il dolore di un altro». E qui è Carver a campeggiare, nella lista di autori di racconti cari a Cognetti: «un personaggio si ama ascoltandolo e offrendogli il poco che sappiamo fare: se non una torta (in riferimento alla storia Una cosa piccola ma buona, della raccolta Cattedrale), un racconto scritto onestamente può andar bene».
Pescare nella pozza profonda della compassione significa anche accettare il rischio di inabissarsi nei fondali oscuri e fangosi in cui si nutre la carpa dolente della solitudine. E forse proprio in quell’acqua torbida sta la risposta a tutto: scrivere è un modo per combattere il sentirsi soli, ne sa qualcosa David Foster Wallace. Oppure è curare una malattia, una mutilazione che tutti, dentro o fuori, abbiamo; magari ce la siamo procurata «in guerra, o nel matrimonio, o durante l’infanzia». Si guarisce prendendosi cura delle cose elementari, della casa, del cibo, il sonno, il corpo, il tempo. In questi casi i cerotti e le bende migliori per l’anima le forniscono Flannery O’Connor e André Dubus.
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Non tutto è guardarsi dentro, però. Un racconto è anche una finestra aperta sulla casa di qualcun altro, un punto d’osservazione privilegiato e segreto. Ogni casa «parla di chi la abita ed è lei stessa una forma di scrittura»; è così anche per Cognetti, che in casa d’altri non è «scrittore-ospite» ma «scrittore-esploratore» e scruta nell’armadio, sotto il letto, accende le luci, sfonda porte chiuse. In una casa sperduta tra le montagne riordina continuamente il proprio «archivio privato di storie», compreso il racconto, specialissimo, su quel suo rifugio. Ci accompagna così a bussare all’uscio delle case di Hawthorne, di Carver (ancora), di Cheever, «il più domestico di tutti».
Infine, nel cuore del racconto pulsa senza sosta la meraviglia. Il cuore capace di meravigliarsi sempre è un cuore mai stanco, mai vecchio, anzi, è un cuore di bambino, che ci mette al riparo le coronarie dal senso di delusione con cui ci schiaffeggia spesso la vita, che non ci fa perdere l’ingenuità di guardare le cose in modo pulito, «nobile, non corrotto», di vederle con lo sguardo di ogni prima volta, per poi raccontarle «come se fossi il primo in questo mondo a farlo». La meraviglia avrebbe salvato la vita perfino a Gatsby, il grande deluso; è l’unico lusso che quell’uomo non può comprare.
Nessun sermone teorico su come scrivere racconti dunque, in questo libro, ma piuttosto la timida e limpida volontà di raccogliere nella burga qualche intuizione maturata con la pratica e la frequentazione assidua dei maestri del genere, premurosamente citati alla fine. Cognetti ci regala anche tre suoi racconti inediti, con una protagonista ben nota ai suoi lettori, una figura femminile che non riesce a staccarsi dalla lenza della scrittura. Il racconto, ci suggerisce l’autore, non dovrebbe mai terminare con la parola fine ma con un ciao.
Riprendendo Cortázar, i racconti «non sono mai o quasi mai problematici; per i problemi esistono i romanzi». Eppure i lettori di racconti si muovono quasi in clandestinità come i membri di una setta, «pochi, perseguitati, costretti alla segretezza». E, secondo Paolo Cognetti, animati dal piacere di scoprire ciò che «non si può imparare nei libri», andando A pesca nelle acque più profonde.
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