"A nome tuo" di Mauro Covacich
Un giorno scrissi un racconto breve stupido e lo misi sul blog. In quel racconto breve stupido il protagonista cadeva da una scala e finiva al pronto soccorso.
Due ore dopo mi chiama un’amica: “Ehi, come stai adesso?”
“Prego?”
“Ho letto, sei caduto. Ti hanno ingessato?”
Il protagonista di A nome tuo si chiama Mauro Covacich e dopo poche pagine si sta ingroppando una giovane ragazza di colore finita per caso nella sua cabina, sulla nave che fa il giro delle coste balcaniche inseguendo appuntamenti culturali di cui Mauro Covacich il protagonista che fa lo scrittore è ospite. Poco dopo Mauro Covacich il protagonista che fa lo scrittore del romanzo dello scrittore Mauro Covacich è al telefono con la compagna Susanna, e tenta di occultare l’imbarazzo per il consumato amplesso.
Un’amica (un’altra, non quella del braccio rotto), commentando queste prime pagine, fa: “Però, che bastardo Covacich…”
“Prego?”
“Manco sta da tre anni con Susanna che già la tradisce. Figlio di p...”
Faccio un passo indietro: nel 2008 uscì Prima di sparire, romanzo dello scrittore Mauro Covacich che aveva come protagonista lo scrittore Mauro Covacich. Al personaggio Mauro Covacich accade questo: si innamora di Susanna e va a vivere con lei a Roma, mandando a quel paese – più esattamente lasciandola a Pordenone – la moglie Anna. Più o meno nello stesso periodo di tempo raccontato nel romanzo, lo scrittore Mauro Covacich lascia la moglie che si chiama Anna e con la quale vive a Pordenone e va a vivere a Roma con una donna di nome Susanna.
(La stessa amica – l’altra, non quella del braccio rotto, covacichiana di ferro, commentò: “Figlio di p... a scrivere un romanzo del genere, fossi Anna l’avrei mandato af... e fossi Susanna manco morta starei con uno così...”).
In A nome tuo Mauro Covacich è ipnotizzato da questa giovane donna di colore e al netto di alcuni espedienti narrativi per far accadere qualcosa durante questo viaggio nei Balcani, al netto di alcuni temi fissi ormai parte della poetica consolidata dell’autore Mauro Covacich, per questa donna il protagonista Mauro Covacich scrive una storia.
Così a pagina 175: stacco; pagina bianca; titolo: Musica per aeroporti; un altro romanzo.
Su quanto da pagina 1 a pagina 175 rimando alla seconda di copertina: “Il tema dell’identità, triestino quant’altri mai, è il vero nucleo di questo libro. Declinato in una storia avvincente – anzi due – si manifesta in tutta la sua complessità. Da dove veniamo, che lingua parliamo, cosa mostriamo di noi, come ci raccontiamo a noi stessi e agli altri”.
Ci sta: se vi piace, liberi tutti.
Io invece voglio parlare di questo piccolo capolavoro che è Musica per aeroporti, il romanzo a sé che vive da pagina 176 a quasi al termine, pagina 327, senza dirvi che questo romanzo è già uscito nel 2009 per Einaudi a nome Angela Del Fabbro con il titolo Vi perdono, non dirò che sulla terza di copertina di quel romanzo c’era scritto “Angela Del Fabbro è il nome di una persona che intende rimanere nell’ombra. È nata e vive a Roma”, soprattutto non dirò che fabbro in croato si dice kovac: sono giochetti che asservono al lettore poco avvezzo, che servono soprattutto ai giornalisti per scrivere di un libro in maniera ritenuta interessante, sono la curiosità attorno al libro.
Questi giochetti sono possibili, senza sfigurare, in due casi: quando hai amici scrittori disposti a pomparti, su facebook, twitter, (google+?), blog, con recensioni spettacolarizzate, che scorgono filosofie pionieristiche dietro il nulla, come se fosse antani.
Oppure, e questo è il caso, se sei un grande narratore e un bravissimo scrittore: se hai la capacità di scrivere Musica per aeroporti sai dare sostanza, dai sostanza, le discussioni sull’identità e su tutto quanto può uscirne – il gioco degli specchi, uh – lasciamole a quelli che in queste cose amano nuotare. Capolavoro piccolo per esiguità, un romanzo breve aggraziato, scritto con la leggiadria della linguistica solita dell’autore Mauro Covacich, la musica è quella che la protagonista Angela chiede venga scelta, l’ultimo brano, da colui o colei che decide di andarsene, morire, il suicidio assistito.
Eutanasia.
Angela passa nottate in aeroporti di cui vede le luci spegnersi, va e viene dal Messico dove recupera dosi letali di anestetici per animali, Angela vive tenendo i suoi affetti all’oscuro dell’altra vita che si è costruita, nessuno di chi le è accanto sa che Angela è un’esperta del processo della morte.
Ella non uccide: fornisce gli strumenti affinché la morte sia quella più indolore.
A richiederne il servizio, tramite conoscenze telefoniche a compartimentazione stagna – contatti tra medici, sono sempre malati terminali, finché il telefono squilla e chi parla è una persona perfettamente in salute.
La quale, tuttavia, non ha il coraggio di fare da sola quello che Angela garantisce indolore: “Perché (…) io ho bisogno di supplicare lei? Questa cosa che fa lei a pagamento dovrebbe essere di pubblico dominio, dovrebbe essere una cosa che so fare anch’io, che sappiamo fare tutti”.
Il dilemma morale.
L’altra vita, quella in cui nessuno sa, che scorre, ordinaria.
Poi diciamo che Angela è nera.
Che la giovane donna della cabina sulla nave che fa il giro dei Balcani si chiama Angela.
Che la nera Angela che aiuta i malati terminali a suicidarsi è adottata.
Che Fiona era adottata, che Fiona era nera.
E perdiamoci tra realtà e finzione, tra poetica dell’autore e quadrilogie o pentalogie, quanto vogliamo, finché volete.
Quello che rimane, al netto di questi espedienti narrativi e poetici, è un libro forte, un piccolo capolavoro che regalerò alla mia amica del braccio rotto, per solleticare la sua morale grosso modo cattolica, cioè italiana, facendo attenzione a evidenziarne la nota a margine, là dove è scritto che i personaggi e i nomi dei farmaci sono inventati.
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