A cosa serve la filosofia? La prospettiva di un grandangolo sul mondo
«La filosofia è quella cosa con la quale o senza la quale si sta tale e quale».
Esordì con queste parole la prima lezione di filosofia in terza liceo scientifico, con la voce imperiosa di una professoressa che rispondeva così alla domanda, che si era posta da sola: «A cosa serve la filosofia?».
Parole che mi sono tornate alla mente dopo essermi imbattuto per caso nella pubblicità della nuova collana del «Corriere della Sera»: Grandangolo (nomen omen per una collana che si occupa di filosofia). Se è vero che quest’ultima consente di ottenere una maggiore profondità di campo, è anche vero che, come un grandangolo, potrebbe restituire una prospettiva accentuata, esaltando il soggetto in primo piano. In questo consiste il merito e il rischio più grande della filosofia, il cui scopo primario potrebbe essere proprio quello di porre al centro del discorso temi e questioni, cercando di ingigantirne la portata e le implicazioni, non per il gusto dell’esagerazione, ma per rendere evidenti le distorsioni a cui si potrebbe andare incontro.
Ancora oggi, dunque, l’interrogativo sull’utilità della filosofia resta attuale, e tuttora continuerebbe a instillare un dubbio pericoloso, se non fosse per la seconda domanda che la stessa insegnante, sempre il primo giorno di lezione, pose a una classe di studenti che già pensavano di avere una cosa in più da non studiare: «Secondo voi, io ho una mela?».
Qualche voce, quella dei più coraggiosi in grado di sfidare la follia (perché tale ci apparve in quei momenti), rispose con «No».
La professoressa, in un silenzio che anni dopo mi è stato ricordato solo dalla scena con cui Liv Ullmann e Ingmar Bergman dialogano in Scene da un matrimonio, prese la borsa che aveva poggiato a terra mentre si sedeva, la posò sulla cattedra, l’aprì ed estrasse una mela: «Avete sbagliato». La guardammo attoniti in silenzio, mentre lei iniziò a mordere la mela. Una volta finito, ci disse: «E ora ho la mela?». Questa volta risposero ancora meno voci: «No, l’avete mangiata». Lei, sorridendo, negò acconsentendo: «Vero, non ho più la mela, ma ho dentro di me tutto quello che mi serve della mela. Posso dire che io non ho più la mela, se utilizzo le sue parti per produrre energia che mi è utile?».
E, a questo punto, resasi conto dello sconforto in cui stavamo cadendo, aggiunse: «Non è vero che con o senza filosofia si sta tale e quale. Un approccio filosofico non vi avrebbe fatto rispondere con un no così secco alla mia prima domanda, ma vi avrebbe spinto a pormi delle domande, le cui risposte vi avrebbero, forse, fatto rispondere diversamente. La filosofia è ricerca».
A distanza di qualche anno, con una laurea in filosofia ed esperienze di lavoro di vario genere, mi verrebbe da dire che aveva ragione: la filosofia è ricerca, posizionamento dell’indagine come metodo, dell’investigazione come ragione, è il formulare le domande giuste pure al momento sbagliato. E le risposte? Paradossalmente (ma neanche così tanto), possono anche essere sbagliate, perché una risposta è contestualizzata al momento storico in cui viene formulata, ha una sua radice storica che si nutre del sapere, incluso quello scientifico, ritenuto valido nel periodo in cui il filosofo indaga. Possiamo dire che i filosofi pre-socratici abbiano formulato ipotesi sull’origine della natura e del mondo un po’ bislacche ed errate? Sì, se le analizziamo da un punto di vista prettamente scientifico e alla luce delle scoperte successive, ma sul piano filosofico la loro domanda permise la liberazione dalle narrazioni mitologiche, spostando l’attenzione dal mondo degli dei a quello della natura, di cui se ne indaga l’origine archetipica senza guardare in alto, cioè restando nella natura stessa (i filosofi mi perdoneranno la semplificazione eccessiva). Senza voler entrare nel merito delle posizioni espresse da Julian Jaynes ne Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, posizioni che vale comunque la pena considerare, possiamo dire che, grazie a Talete, Anassimandro e Anassimene, e soprattutto in virtù delle loro domande, la filosofia nasce come indagine razionale sulla natura. La filosofia divenne lógos, cioè in grado di porre un discorso sul vero, attraverso un metodo differente, in grado di esprimere contenuti nuovi. Se il mito non necessita di occhi o di bocca per affermare la propria verità (la parola “mito” deriva da mýein, chiudere gli occhi e la bocca), rimandando a un processo iniziatico di acquisizione di una verità indiscutibile, il lógos ha bisogno della parola, del discorso, perché è l’indagine che porta alla verità.
Non è un caso che, proseguendo lungo la tradizione occidentale, il Vangelo di Giovanni abbia inizio con
«In principio era il Verbo,
il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era in principio presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui,
e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che
esiste».
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Pur non volendo negare la differente connotazione del lógos cristiano rispetto a quello classico greco, resta la parola come principio, il discorso, anche nella forma dialogica alla pari, perché il Dio cristiano diventa uomo fra gli uomini per meglio dialogare con loro, per attivare un processo di rivelazione della verità.
Questo breve passaggio può essere già funzionale ad affermare un principio: non è la filosofia in sé da porre in discussione come materia d’insegnamento nelle scuole superiori, ma l’approccio didattico, di cui non è responsabile solo l’insegnante, bensì l’impostazione degli stessi manuali di storia della filosofia per le scuole superiori. Si tende, infatti, a rappresentare la storia della filosofia, il vero oggetto di studio nelle scuole superiori, come una serie di pensatori bizzarri che proponevano teorie sconnesse, ognuno dicendo la sua sullo stesso problema. Banalizzo? Temo di no. E temo, altresì, che l’abolizione, nei manuali di storia della filosofia, di una sezione antologica abbia contribuito ulteriormente alla sensazione che vede nella filosofia non lo sforzo di un confronto del pensiero con se stesso, o meglio di soggetti pensanti con quelli che li hanno preceduti, ma un continuo susseguirsi di definizioni astratte, al punto da far apparire il povero Platone solo come il filosofo delle idee e dell’amore platonico. Immaginiamo, invece, di poter parlare di filosofia, simulando il percorso di indagine alla base delle risposte platoniche: si potrebbe scoprire, ad esempio, che la riflessione platonica è stata funzionale (sto sempre semplificando per facilità di divulgazione) alla riflessione kantiana sulla cosa in sé e sul noumeno, che, a sua volta, potrebbe portarci alla differenza lacaniana tra Das Ding e Die Sache, riferite rispettivamente alla “cosa” che si ricerca costantemente, trovando, però, solo i suoi surrogati (die Sache).
Quello che potrebbe essere utile a questo punto è il poter contare su materiali che, pur conservando alcuni elementi tradizionali che li rendono adatti a un utilizzo in chiave didattica, siano in grado di attivare percorsi di riflessione. Penso, ad esempio, proprio alla collana Grandangolo, promossa dal «Corriere della Sera», e il cui primo numero, dedicato a Platone, sarà da domani in edicola. Seguiranno, ogni settimana, altre 34 uscite, incentrate su altrettanti filosofi (o pensatori), da Kant a Hannah Arendt, da San Tommaso a Marx, passando anche attraverso Einstein e Darwin, sostenendo, indirettamente, che la riflessione filosofica non può e non deve sentirsi esonerata da un riferimento alla scienza.
Due aspetti, a mio avviso, potrebbero rendere funzionale la collana a un utilizzo come supporto didattico per l’insegnamento della filosofia: la presenza, in ogni volume monografico, di stralci tratti dalle opere dei filosofi, in una sezione antologica, e le recensioni di alcuni dei massimi esponenti tra i pensatori contemporanei, che potrebbe servire al recupero di un discorso di continuità che dovrebbe essere alla base di qualunque storia della filosofia.
Se a questo si unisce il fatto che la collana sarà disponibile anche in formato digitale, ricorrendo a un linguaggio divulgativo e non da specialisti di settore, e che sarà sostenuta da una campagna Twitter sui profili @Corriereit e @La_Lettura con l’hashtag #grandangolo e dedicata ai filosofi protagonisti delle singole uscite, mi sembra che si possa affermare che si può fare affidamento su un supporto didattico in grado di intercettare le nuove dinamiche di apprendimento dei più giovani.
Credo che, nonostante alcuni tentativi di mortificarne la natura, fino a renderla una disciplina sacrificabile nella sperimentazione di un liceo della durata di quattro anni (attualmente già in corso in tre istituti pubblici, sebbene non si tratti ancora di licei), la filosofia abbia ancora molto da dire, perché, per fortuna (secondo alcuni), ma purtroppo (secondo non pochi), è utile porsi, con metodo e rigore, qualche domanda dinanzi a qualunque affermazione o realtà di fatto. L’appiattimento dell’indagine a opposizione sovversiva è, infatti, il miglior viatico per la sovversione vera e propria.
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