A cosa saresti disposto a rinunciare? Le scelte di Christina Dalcher
«I bambini sono resilienti, penso. Ed è una buona cosa, in tanti sensi, perché cadono, si rimettono in piedi e ricominciano a fare ciò che stavano facendo. Ma la resilienza porta con sé una sorta d’insensibilità, di accettazione, di tolleranza. Agli occhi di Anne, ciò che accade a chi fallisce è il semplice e normale funzionamento delle cose. Qualunque situazione va affrontata o dimenticata in fretta. Finora.»
Molte sono le pagine da sottolineare del nuovo romanzo di Christina Dalcher La classe (pubblicato in Italia dalla casa editrice Nord – traduzione di Barbara Ronca) e altrettante le domande che il suo libro vi costringerà a porvi. Non saranno domande facili e non vi soddisferà la prima risposta che troverete per azzittirle, ma non potrete smettere di pensarci e questa è una dote rara in un romanzo.
Leggendolo scoprirete che la resilienza di cui ci parla Elena Fairchild (la protagonista di questa storia), quella che ci rende «insensibili e allegramente tolleranti verso le difficoltà e le sofferenze altrui», è come un virus che infetta le menti e restringe i cuori, in nome del benessere di pochi fortunati. Nel mondo di Elena, infatti, tutto è demandato a un test che ogni cittadino deve ripetere mensilmente per capire cosa ne sarà della sua vita. Se il punteggio è soddisfacente, si accede al gruppo argento e con esso alle scuole migliori, alle carriere più sfolgoranti, ai partner più intelligenti con cui dare vita a famiglie perfette.
Man mano che si scende nella scala sociale e nelle sue caste, la situazione cambia, la qualità della vita scende, spesso precipita, e dalle scuole di élite si passa ai campi di lavoro. Elena, membro del gruppo argento, non vede questa parte di realtà e vivendo separata dagli altri gruppi, può credere che: «ciò che accade a chi fallisce sia naturale, il semplice e normale funzionamento delle cose». Almeno fino al giorno in cui sarà lei a trovarsi dall’altra parte della barricata, in una scuola che assomiglia a un campo di lavoro, combattendo per diritti che dava per acquisiti.
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Leggendo la storia di Elena e la sua lenta discesa verso gli inferi della divisione in caste, la prima reazione che ho avuto è pensare che io non lo accetterei, non lo permetterei. Poi i dubbi iniziano a sbocciare dalla narrazione e ci si comincia a chiedere: “se fossi fra i privilegiati sarei abbastanza forte per contrastare il sistema?”.
E da qui che mi piacerebbe partire con la mia intervista a Christina Dalcher, chiedendole se sarebbe abbastanza forte per combattere il sistema. E quali armi abbiamo, noi, che siamo dei privilegiati, per combattere la nostra resilienza?
È sempre difficile prevedere cosa farebbe ognuno di noi in uno scenario estremo. Ci piacerebbe poter dire che reagiremmo in maniera eroica e mi piace pensare che lo faremmo. La verità, comunque, è che semplicemente non possiamo saperlo.
La classe è una storia di una famiglia preda del miraggio di un sistema che decide cosa sia giusto o sbagliato al posto delle persone, ma i personaggi femminili che lei disegna sembrano avere quell’attitudine al dubbio che invece le loro controparti maschili non posseggono. Come mai questa cesura così netta?
Poche cose nella vita sono così nette! Penso che tutti noi (uomini e donne) abbiamo la capacità di agire giustamente o ingiustamente, di essere comprensivi o indifferenti. Anche ne La classe ci sono delle linee d’ombra, delle aree di grigio: Madeleine Sinclair (una donna) è la creatrice del distopico sistema di caste su cui si basa il romanzo, mentre Gerhard, il padre della protagonista (Elena), è molto critico verso il sistema.
La storia di Elena è narrata in prima persona, come accadeva anche nel suo precedente romanzo (Vox, pubblicato in Italia nel 2018 sempre dalla casa editrice Nord), cosa l’ha portata a scegliere questa strada rispetto a una terza persona? E ha in previsione di scrivere un romanzo anche dal punto di vista di un uomo?
Molto dipende dal tipo di storia che sto scrivendo. Tendo a utilizzare diversi punti di vista. Sia Vox che La classe hanno alcune caratteristiche che le rendono storie ad alto tasso emotivo, per questo ho pensato che scriverle in prima persona mi avrebbe aiutato a entrare più facilmente nella mente dei personaggi.
Sto lavorando a un libro che è raccontato in parte dal punto di vista di un uomo e nei miei racconti mi è capitato di giocare con tutti i tipi di punti di vista. Una volta ho perfino scritto un testo umoristico dal punto di vista di un gatto!
Molti sono, nel suo libro, i rimandi all’ideale nazista di una razza pura, un gruppo di ‘migliori’ a cui spetta il dominio del mondo. Un ideale che punta a giustificare azioni turpi per un presunto bene collettivo. Mi viene alla mente la domanda della protagonista: «Nasciamo così? O ci viene insegnato? Entrambe le possibilità, seppure in modo diverso, sono orribili.»
Ah, la questione ‘Natura contro Cultura’, soprattutto quando parliamo della propensione dell’essere umano al male, è una delle mie favorite.
Probabilmente perché la risposta è così sfuggente. Se un innato istinto di sopravvivenza ci permette in qualche modo di giustificare il dominio su altri esseri umani, molti di noi sono in grado si superare questo istinto. E anche se alcuni fattori ambientali ci spingono verso l’astio e la violenza, siamo, per la maggior parte, capaci di superarli. In breve, io penso che la condizione umana sia propensa al bene, ma quando scrivo romanzi distopici, mi focalizzo sul lato oscuro dell’umanità.
Lei ha alle spalle un background da linguista con un dottorato in fonetica e studio del linguaggio. La sua tesi di laurea è dedicata alla lingua italiana, per la precisione al fiorentino. Come mai questa scelta e da dove viene la passione per la nostra lingua?
Perché amo la lingua italiana? Mi faccia enumerare le ragioni… forse perché è bella e musicale. Forse perché la storia e la varietà dei suoi dialetti mi affascina. Forse perché, fra tutte le lingue che ho studiato, l’italiano è quella che parlo meglio. E certo, ci sono stati almeno un paio di boyfriend italiani nella mia gioventù…
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So che è una flash fiction addicted, quella forma super concentrata di narrazione che in italiano definiamo ‘racconto breve’. Da dove viene questa passione e perché consiglierebbe a un autore in formazione di cimentarsi con questa forma di scrittura?
C’è qualcosa di magico nello scrivere o leggere una storia che è lunga solo poche centinaia di caratteri. Il racconto breve costringe lo scrittore a lavorare meglio, ma anche il lettore deve impegnarsi di più nel riempire così tanto spazio vuoto.
Dal punto di vista di uno scrittore, un testo narrativo super-concentrato è il mio preferito. Mi dà l’opportunità di sperimentare senza la pressione imposta da un romanzo. La Flash fiction lascia libero lo scrittore di concentrarsi sulla scrittura, solo sulla scrittura.
Prima di salutarla, mi piacerebbe chiederle quali libri teneva sul comodino mentre scriveva La classe e se c’è già un nuovo romanzo a cui sta lavorando.
Mentre stavo scrivendo La Classe, sono certa che ci fossero dei romanzi di Stephen King e Lionel Shriver nelle vicinanze! E sì, sto sempre scrivendo un nuovo romanzo o forse due.
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Per la prima foto, copyright: Chen Feng su Unsplash.
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