’14 di Jean Echenoz: la guerra, un terribile fantasma mirabilmente contenuto
Adelphi ha pubblicato ’14, l’ultimo romanzo di Jean Echenoz, con la traduzione di Giorgio Pinotti, proprio nel centenario dello scoppio della Grande Guerra. Echenoz, francese, nasce nel 1947 a Valencienne; dopo studi di ingegneria civile e sociologia, si trasferisce a Parigi dove inizia a scrivere regolarmente. Collaborerà con quotidiani e seguirà corsi alla Sorbona. Pubblica a soli 32 anni il suo primo libro, Il meridiano di Greenwich; inizierà una collaborazione proficua con la casa editrice Les Éditions de Minuit, la quale pubblicherà anche i tre romanzi seguenti. È stato sempre molto apprezzato come autore, in particolar modo dalla critica. Ma perché questi dettagli? Per entrare nell’ottica di Echenoz basta una sua frase. Quando, nel 1989, gli è stato chiesto di redigere una sua autobiografia, si è limitato a scrivere: «Jean Echenoz, nato il 4 agosto 1947 a Valencienne. Studi di chimica organica a Lille. Studi di contrabbasso a Metz. Discreto nuotatore». Ecco, questo è Echenoz in ’14.
Siamo a luglio, in un paesino sperduto della campagna francese: Anthime, giovane operaio senza particolari progetti per il futuro, si sta concedendo un giro in bicicletta tra i campi quando sente suonare le campane del paese, campane che stanno annunciando l’inizio della prima guerra mondiale. Anthime, scaltro quanto introverso, sa che la scelta possibile sarà solo una: rispondere alla chiamata della nazione, accettare di andare a morire, combattere, senza sapere precisamente per cosa, contro chi e dove. Gli stanno accanto i tre amici di una vita, che lo accompagneranno a intervalli più o meno regolari nel susseguirsi dei combattimenti, il fratello Charles, chiamato anch’egli al fronte, spostato poi nelle forze aeree, e la promessa sposa del fratello, Blanche Borne, figlia di un imprenditore del paese.
’14 si articola, con tutta evidenza, agli esordi della prima guerra mondiale, un’ambientazione letteraria trita e ritrita ma di cui Echenoz capovolge la prospettiva: basta coi soliti topoi logorati da anni di storie, tra uomini duri, impavidi, in trincee pericolose e luride (o meglio, tutto questo rimane sullo sfondo); come è stata vissuta quella guerra da un qualsiasi francese di campagna che a malapena sapeva scrivere e che aveva sempre vissuto un’esistenza tranquilla e rurale? È la domanda a cui l’autore cerca di rispondere con i personaggi principali del libro, cinque uomini chiamati al fronte e una donna che aspetta il ritorno del promesso marito, con un figlio in grembo. Sono poco più di un centinaio le pagine che Echenoz usa per descrivere un periodo di oltre 500 giorni in cui questi cinque uomini vivranno la guerra ognuno a modo proprio. Fra tutti spicca Anthime, focus dell’autore per una prospettiva più ampia: la guerra, gli eventi, il mondo che lo sommerge e lo ingoia.
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Questo romanzo si nutre anche (e forse soprattutto) della sua stessa lingua, del suo stesso stile, delle preziosità tecniche del suo autore. Jean Echenoz riesce a impedire che qualcosa di imponente, maestoso e indimenticabile come la prima guerra mondiale, nonostante la sua funzione primaria all’interno del meccanismo narrativo del romanzo, diventi protagonista, antagonista e set di questa storia. La guerra c’è, ma è un fantasma all’interno di questo racconto, un fantasma terribilmente vivo, concreto, vicino, che travolge le vite di centinaia di migliaia di uomini, ma che le parole dell’autore – a distanza di cent’anni – riescono a contenere e modellare.
Esclusi i paroloni e l’ennesima (per quanto edificante) ricostruzione di memorie, sfondi, azioni che si leggono su qualsiasi libro ambientato in guerra, Echenoz ha il dono di dipingere nitidamente un nuovo punto di vista, ricorrendo a costruzioni semplici e brevi quando chiunque impiegherebbe paragrafi interi; l’autore è crudo e a volte terribilmente diretto. Tecnicamente è impressionante: frasi studiate nel dettaglio e che proprio per effetto dello stile essenziale si esaltano nella loro musicalità; è la padronanza del lessico che fa la differenza in questo libro, e non mi riferisco tanto alla quantità di termini ricercati che Echenoz può conoscere o meno senza consultare un vocabolario, ma alla sua capacità di incastrarli al meglio nelle frasi, in funzione di una brevitas disarmante che lascia interdetti. Bastano poche righe, a volte poche sillabe per significare gli aspetti fondamentali della prima guerra mondiale che conosciamo tutti, che dobbiamo conoscere, capitoli interi per venire metabolizzati: la staticità dei combattimenti, i primi aeroplani militari, le prime armi chimiche, le malattie, il freddo, disertare, uccidere, morire.
Faccio un esempio: per introdurre la figura dell’unica protagonista femminile del romanzo, la benestante Blanche Borne, Echenoz usa queste poche righe: «Domenica mattina Blanche si è svegliata nella sua stanza, al primo piano di un’imponente magione come ne posseggono i notai o i deputati, i pubblici ufficiali o i direttori di fabbrica: la famiglia Borne dirige la fabbrica Borne-Sèze e Blanche è figlia unica». In queste poche righe Echenoz, pur non esponendosi con commenti o descrizioni precise, ci introduce il personaggio per quel che è, collocandolo in un determinato spazio e in una data categoria sociale: la si riesce a vedere subito, l’unica figlia probabilmente viziata di un imprenditore di inizio secolo, abituata ad un certo tenore di vita. Questo, a mio parere, non è solo un paragrafo, è una lezione di scrittura creativa: show, don’t tell!
Con questo romanzo si va al museo, e il suo autore non fa da guida, ma è l’artista delle opere che stiamo ammirando. Osservandole, in ’14, abbiamo la sensazione che Jean Echenoz sia lì, mentre dipinge, di fronte a noi eppure da noi lontano anni luce.
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