[1-3-1] Rileggere la Rivoluzione d'ottobre insieme a Davide Orecchio
Prima puntata della rubrica 1-3-1
Gli anniversari, diceva Julio Cortázar, sono le grandi porte dell’imbecillità. E questo molte volte è vero. Ma se ci sono molteplici esempi della verità contraria, ovvero che un anniversario può essere anche l'occasione per un’operazione di feconda intelligenza, allora tra quegli esempi possiamo annoverare Mio padre la rivoluzione, opera realizzata da Davide Orecchio in occasione del centenario della Rivoluzione d'ottobre, di concerto con minimum fax, in cui lo scrittore sottopone avventure, disavventure, protagonisti e vittime di un secolo di spirito rivoluzionario a un’ambiziosa rilettura, con gli strumenti di una sorta di metodo sperimentale della scrittura.
Il libro è costruito sullo scheletro di alcuni racconti già pubblicati in rivista o volumi collettanei, riscritti e rielaborati, arricchito da altri composti per l’occasione. Il montaggio è sinfonico, con una serie di motivi che scivolano l’uno nell’altro, e se il libro non è certo un romanzo nemmeno lo si può definire una raccolta di racconti tout court senza registrarne almeno la natura anfibia, nella struttura e nello stile, che riprende e varia qui alcuni stilemi già sperimentati nei due precedenti libri di Orecchio (Città distrutte, Gaffi 2011, da poco riedito per Il Saggiatore, e Stati di grazia, Il Saggiatore 2014), mescolando fonti storiche e invenzione, come andando a incidere con l’immaginazione il disegno di una più profonda verità dell’anima dei fatti su un palinsesto già stratificato di dati, conoscenze, miti e inganni, non cancellati ma riusati. Nella concatenazione di racconti/non racconti e nel plasmarsi di materiali di diversa natura la Storia viene dunque continuamente svestita e rivestita. Chi scrive vuol sottrarre la Rivoluzione a giudizi superficiali o obliterati, in un senso o nell'altro. Ne va del concetto di verità, che non può essere un prendere o lasciare ma sempre invece un distinguere e comprendere, senza nascondere alcunché.
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Per offrire un esempio del tipo e della complessità di sguardo messa in gioco, basta un volo alto sulla varietà dei racconti. In Una possibilità di Lev Trockij, il rivoluzionario è sfuggito all’attentato, che gli fu in verità letale, nel 1940 e può giudicare col senno dei posteri i fatti del controverso 1956, dal XX Congresso del Pcus all’invasione dell’Ungheria. In Plotkin si rivivono i giorni dell’affermazione del nazismo tramite gli occhi dell’americano Abraham Plotkin, che visse a Berlino tra l’inverno del 1932 e la primavera del 1933. In Un poeta sul Volga si racconta il viaggio di uno straniato Gianni Rodari a Mosca, in occasione del centenario della nascita di Lenin. In uno dei racconti più detonanti, Iosif Adolf Vissarionovič, si compie una potente fusione tra le storie e le personalità di Stalin e Hitler, che divengono un unico dittatore che spadroneggia nello sconfinato e indistinto territorio tra Berlino e Mosca. Ma il libro è popolato da molte altre presenze, da Ivar Oddone (il partigiano Kim di Calvino) a Alfredo Orecchio (padre dello scrittore, scrittore egli stesso, dalla parabola esemplare nel suo passaggio dal fascismo giovanile alla militanza nei gruppi armati della Resistenza), passando per le ucronie di cui sono protagonisti Rosa Luxemburg, sopravvissuta alla sua reale sorte e autrice di una lettera ai cittadini sovietici nel trentennale della Rivoluzione, e un giovane Robert Zimmerman non ancora divenuto Bob Dylan e folgorato dalla lettura degli scritti di Trockij, per finire con le voci dei testimoni, dei commentatori, delle vittime o degli attori non protagonisti di un secolo di Storia.
Innovativa (e impegnativa) è la stessa ricerca linguistica di Orecchio, che mette a punto una voce anch'essa polifonica, mescidata nei livelli, nei toni e nei punti di vista con una soglia sempre alta di sensibilità e attenzione verso gli aspetti musicali e ipnotici. Una lingua che esprime allo stesso tempo una natura narrativa, analitica, poetica e teatrale e che rifiuta ogni soluzione a grado zero in ciascuna delle funzioni del linguaggio; una lingua che di volta in volta si inceppa, si infiamma e crolla su se stessa come a volte si inceppa, si infiamma e crolla la realtà; una costruzione sempre in bilico tra razionale e irrazionale, come quella forza da cui la Storia è spesso violentata, e che risulta efficace nel farci avvertire distintamente il palpito vitale di ciò che racconta, il profondissimo giacimento di dolore, universale e personale, da cui tutto si genera. Un sangue vocale dal DNA inconfondibile.
TRE DOMANDE A DAVIDE ORECCHIO
Cosa l’ha spinta a ritenere che lo strumento ideale per condurre il processo a un intero secolo di sogni, allucinazioni e incubi potesse essere questo connubio tra studio, analisi, immaginazione e lavoro linguistico, lontano tanto dall’idea di una letteratura come documento quanto dallo storytelling storico?
Credo che il comunismo sovietico sia stato anche questo: immaginazione, leggenda, falsificazione, mutazione dell’utopia in tradimento. Quindi molte delle soluzioni narrative che andavo scegliendo mi sembravano congeniali alla mia intenzione, quella di raccontare un mito. Ammetto che non possiamo parlare di uno “strumento ideale”, ma solo di un metodo che funziona per me, in questa fase della mia maturazione, dove porto quanto ho potuto e saputo studiare, e la dimestichezza con le fonti, all’incontro con la scrittura di narrazione e non solo di saggio.
Nei tre libri finora pubblicati lei resta molto fedele ai suoi temi e a una sua idea di stile. Nel caso di Mio padre la rivoluzione le biografie restano infedeli, ma i nomi e i cognomi diventano invece per la prima volta fedelissimi, come se in una stratificazione di molteplici mascheramenti la prima maschera fosse stata strappata dai volti. Ha una direzione questo percorso?
Il marchingegno dell’infedeltà così come in Città distrutte (il personaggio esistito e il suo altro letterario) non era replicabile. In questo caso ho optato per la fantasia su versioni alternative di vite riconoscibili, ma in realtà se cade una maschera se ne indossano di nuove, i camuffamenti non smettono. Vedi il caso di Dylan/Zimmerman, o quello del Trockij vivo nel 1956. Non credo ci sia una direzione, ma solo l’esigenza di trovare le formule adeguate alla resa del progetto. Questa raccolta di racconti nasce da un piano di lavoro, da un’intenzione, come dicevo sopra. Poi ho dovuto organizzare le strutture e lo stile, la voce e la pagina. Progetti diversi avrebbero richiesto differenti calibri narrativi. Certo è costante nelle cose che scrivo l’uso ambiguo del documento storico, della testimonianza che è sempre vera, circostanziata, collocata nella citazione e nel riferimento libresco, e al tempo stesso è sempre adulterata, ingoiata e trasformata dal narratore. Alla fin fine credo di voler dire questo: che non possiamo fidarci di nulla, neppure del documento, neppure dell’archivio. La verità è un processo di ricerca. Ma ogni verità, in quanto esito, ossia quando la si pronuncia, è falsa.
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Volendo ricondurre a un unico tema onnicomprensivo il suo lavoro, forse non si sbaglierebbe di molto indicando la presenza del Male nella Storia. Scrivere è una forma di resistenza a questa forza? È una militanza di questo genere a muoverla verso la scrittura e dentro la sua scrittura, o cos’altro?
Forse è una resistenza all’ingiustizia, al corso sbagliato e mortificante della storia o del vissuto privato. Immagino che io sia mosso dall’intento senz’altro ingenuo di riscattare le vittime col solo nominarle e raccontarle. Al contrario, provo fastidio per i “sereni”, coloro che non hanno avuto (o pretendono di non aver avuto) le vite sconvolte da piccole e grandi tragedie. Questo genere di serenità è, a mio parere, una forma di stupidità; a volte è la maschera di cecità emotive. Ed è insopportabile.
UNA CITAZIONE DA MIO PADRE LA RIVOLUZIONE
Perché nasca l’uomo nuovo deve morire il vecchio – scriveva Iosif Adolf Vissarionovič nel suo Mein Kampf –, popolo non spaventarti della violenza, la violenza è rivoluzionaria, qui costruiamo il futuro e deve morire l’ebreo, gli si metta un triangolo giallo sulla casacca – scriveva Iosif Adolf Vissarionovič nel suo Mein Kampf – deve morire il kulak, deve morire il nemico di classe, deve morire il nemico del popolo, deve morire l’asociale per motivi ideologici, deve morire l’asociale per motivi biologici, si metta loro un triangolo nero sulla casacca, deve morire l’omosessuale seduttore incallito depravato invertito, gli si metta un triangolo rosa sulla casacca – scriveva Iosif Adolf Vissarionovič nel suo Mein Kampf –: e qui ha il nome di fabbrica dell’uomo nuovo, qui è l’impero dove muoiono slavi, georgiani, ancora ebrei, balcari, salmucchi, ingusci, mescheti, i cechi, gli ucraini, i cosacchi, ancora ebrei, qui tra i rottami, fra la calce bianca e la dolomite, nella fusione del getto d’acciaio crescono nell’altoforno, e creano il monte Iosif Adolf VIssarionovič, i corpi di curdi e ceceni, i tartari di Crimea, i coreani di Vladivostok, i tedeschi del Volga, gli armeni, i lituani, i lettoni , gli estoni, i finlandesi, i polacchi e ancora gli ebrei e sempre gli ebrei, leggiamo in una rara terza edizione del Breve corso di storia.
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