[1-3-1] Nel cuore della Maremma insieme a Sacha Naspini
Puntata n. 2 della rubrica 1-3-1
Fa un grande lavoro architettonico Sacha Naspini per mettere a punto quella che, da una parte, ha l'apparenza di una maestosa summa aneddotica, in un certo senso orizzontale, ricavata mettendo in fila le decine e decine di voci e vicende di Le Case, una piccola Macondo maremmana in cui realtà e finzione si incontrano, ma che, dall’altra parte, è anche una discesa nelle verità profonde di una certa aspra, e maligna, anima loci della Toscana contadina.
La struttura è allo stesso tempo semplice, per i principi, e complessa, per la ricchezza. Gli abitanti di Le Case prendono voce a turno e i loro racconti si intrecciano componendo un albero narrativo il cui tronco principale è il ritorno improvviso in paese di Samuele, il giovane e bel nipote dell'Esedra, additato come “mostro” per essere stato il principale accusato di un femminicidio in un processo che però è stato sospeso. Il suo ritorno semina scompiglio e dà il via al racconto impietoso dei molti vizi e delle pochissime virtù di tutti gli abitanti del paese. Preti che usano i soldi della questua per comprarsi da bere, contadini che favoriscono incidenti stradali per rubare dalle tasche delle vittime, madri disposte veramente a tutto pur di trovare un buon partito a una figlia, medici che vorrebbero far estinguere gli abitanti del paese invece di curarli, mogli ninfomani, falsi sordomuti...
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Una Spoon River della 'gnoranza, si potrebbe definire, per quel realismo che ognuno dei molti narratori esprime con la crudezza di una conoscenza cinica, quasi da dipartiti, estranea a ogni diplomazia. Al di là della battuta va detto che Le Case del malcontento (pubblicato da edizioni E/O) eleva a un superiore livello di architettura una certa vena toscana, letteraria e cinematografica, che già ha suonato queste corde di humor nero ma che non aveva mai pensato che ci si potesse comporre addirittura un'epopea e si era accontentata finora di più piccoli scherzi.
Nella struttura concatenata del racconto trova spazio anche la Storia con la S maiuscola, quella che attraversa le terre della Maremma: la guerra, la Resistenza, la tragedia della miniera di Ribolla, il definitivo declino economico della regione, l'emigrazione prima e l'immigrazione poi... E trovano spazio anche le passioni dell'autore per la scrittura e per gli scacchi, che insieme sembrano comporre, in modo quasi complementare, uno strumento di narrazione delle dinamiche umane, l'una con le parole, gli altri come un'allegoria muta perennemente in mutamento.
Bella la lingua terrigna e veloce, che vola al ritmo dell'oralità rendendo agili le quasi cinquecento pagine e che, se all'inizio sembra dare l'idea di un racconto che non si prende troppo sul serio, alla lunga si rivela uno strumento perfetto di rifrazione di quel quid che è invece sotto la corteccia serio, serissimo, come ogni discorso sul destino, anche quando affrontato con una sfrontata risata sul volto. Su tutto splende il genio di un’anti-saggezza più feroce che bonaria, sicuramente malinconica, probabilmente più maccariana che palazzeschiana, come invece potrebbe sembrare a un primo volo alto.
Le Case è anche un canto, un odi et amo rivolto dallo scrittore alla sua Maremma; da un lato l'espressione di un amore, non incantatorio ma da cui comunque non ci si libera, dall'altro la testimonianza di quell'aspra ribellione che non può mancare in ogni corpo a corpo con le proprie origini, con le gabbie dentro cui siamo cresciuti. Ed è in questo maneggiare il particolare e il concreto, nonché nel mettere mano ai nodi più profondi delle proprie radici, che si trovano le ragioni dell’universalità di questo bel romanzo e, in definitiva, del suo essere qualcosa in più che un semplice intrattenimento.
*
TRE DOMANDE A SACHA NASPINI
I suoi temi, i suoi toni, le sue terre, perfino molti personaggi già apparsi nei suoi libri precedenti... tutti convocati e riuniti in queste quasi cinquecento pagine che sembrano tante e invece corrono svelte. Questo libro ha proprio l'aria di essere il più ambizioso dei suoi progetti, una sorta di summa personale, un libro della vita, ma anche un gran divertimento per lei. Come nasce la sua invenzione, come l'ha covata?
È vero: Le Case del malcontento è anche una specie di compendio delle mie aspirazioni – la prospettiva (meglio: le prospettive, a oggi) da cui guardo alla narrativa, e che per forza di cose fa capo al mio occhio sul mondo. L’ambizione era proprio questa: fotografare l’essere umano, scoperchiato e messo a nudo. Come cassa di risonanza per la storia avevo una scelta obbligata: la Maremma. Quel certo piglio, quell’attitudine al vivere. Il borgo di Le Case ce l’ho nel sangue – sì, fin dal primo romanzo, L’ingrato; e poi toccato con I Cariolanti, Le nostre assenze… –; parte della semantica che si respira nel libro è roba che ho nelle vene da sempre. Mi sembrava un’occasione stupenda: trattare temi universali da quella lente speciale. Probabilmente ho iniziato a scrivere Le Case del malcontento tanti anni fa, senza saperlo. Una sorta di libro-mondo, come lo hanno definito. Ogni personaggio apre le proprie stanze dell’anima. È stato un viaggio intenso. Quando sono arrivato all’ultima porta, mi sono detto: “Forse sono riuscito a dare un nome a qualcosa”.
Gusto per l'aneddoto tipico della piccola comunità, sotterfugi, piccole miserie che a volte si ingigantiscono fino a diventare mitologie, episodi paradossali, invenzioni, una costante disperazione di fondo (e spesso anche di superficie) impastata però sempre con un tocco di surreale e un’immancabile dose di ironia... Dimentico qualcosa? Da dove viene questa ricetta? Qual è il suo Artusi?
È un umore della terra. La Maremma – nella fattispecie, ma un certo alfabeto interiore può essere visto un po’ ovunque, credo, anche nel quartiere di una città – è un bestione che sta nel mondo con un’indole precisa. Utilizzare una certa chiave (voce) per forzare le interiorità di quei personaggi è stato spontaneo, fa capo a quella che potrebbe essere definita la mia “vocazione alla pagina”. Che abita soprattutto nel non detto. Immagino che il resto sia tanto artigianato. La visceralità dei personaggi e delle loro vicende è un attrezzo particolare e insieme dai contorni sfumati: la geografia interiore di un luogo. Che per ovvie ragioni diventa esteriore da morire. E lì c’è tutto: cuore, sangue, rabbia, tragedia, pazzia, amore, vendetta… Alla fine la risposta più onesta mi sembra questa: è la mia semantica. Che ne Le Case del malcontento si presta molto al gioco del simbolo.
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Prima di questo libro, ma anche fin dentro Le Case con la sua natura caleidoscopica, la sua storia ci parla di uno scrittore inafferrabile, che si finisce per trovare ogni volta là dove non ce lo attendiamo; sicuramente con delle ossessioni forti ma in perenne transizione dai generi e dai risultati acquisiti; forse anche per questo con una visibilità critica a mio parere inferiore rispetto a quanto avrebbe meritato. Le ragioni di questo nomadismo da dove vengono? È un affilare la lama accorgendosi poi che non è mai quella giusta? Un cercare se stesso e ogni volta sfuggire alla cattura? Un filarsela davanti alla noia? E, soprattutto, che considerazione della letteratura e del suo mestiere sottintende?
Morirei dentro se dovessi girare il cucchiaio nella stessa minestra a oltranza. La scrittura ti offre occasioni infinite, relegarmi in un angolo (sia questo un genere, un approccio o quel che vuoi) mi farebbe sentire poco bene. C’è la possibilità di toccare tante corde: pizzicarne un paio o tre sarebbe (parlo per me, ovvio) anche poco onesto. Mi piacciono gli autori che si sfidano. Mi piace quando una penna viene riconosciuta, al di là del panorama (occasione, appunto) che ha scelto per giocare la tale partita. Sono dell’idea che un autore debba saper scrivere tutto. Senza tradirsi. Poi ci sono anche dei “ritorni a casa”, è chiaro. I temi che costituiscono uno scrittore – e che lo differenziano dal resto del mondo – tornano; se si risolvono, cambiano in altro ed è bellissimo, perché prende corpo la poetica. Cosa che pestando i piedi sulla stessa mattonella non accade. Considerando la difficoltà e la bellezza del gesto non è possibile pensare alla scrittura in termini di visibilità – che d’altro canto fa parte del gioco, certo, ma qui parliamo da un piano delle cose diverso: lo scrittore come bestione multimostro in movimento. Un occhio particolare sul mondo. Che si trasforma, perché tutto si trasforma. Si cerca, e lo fa in una zona micidiale, spesso mai risolta. Eppure è riconoscibile, sempre. Non dà risposte: crea domande più grandi. Attraverso le storie può scattare fotografie clamorose dell’esperienza umana (interiore o epocale che sia). Allora fa letteratura.
UNA CITAZIONE DAL CAPITOLO MARIELLA MANTOVANI (Casalinga)
Io non lo so cosa mi succede quando vedo gli uomini. È cominciata nel '65, e avevo alle spalle appena un anno di matrimonio. Brutti o belli, la prima cosa che penso è il tipo di bastone che posso prendere giù di sotto e nel didietro, dove mi sembra di non aver fondo. Sarà una specie di malattia. Sarà che riempirmi in quel modo mi chiude la pania, dove l'assenza di un amore vero è rimasta lì, ad abbaiare al vento. Oppure è la maledizione che la Graziellina mi ha tirato addosso da giovane, quando cominciò a vedermi in giro con questo minatore che a ogni occasione si buttava in una battuta di spirito. Mica come oggi, che bisogna tirargli una cannonata per spiccicargli mezza parola che non sia una madonna.
Povero Divo, marito mio. È sempre così arrabbiato, e alla fine lo capisco. Negli anni l'ho messa in capo a ogni compaesano che mi passava a tiro, dai più giovani a quelli bavosi. Tranne a lui, che continua a dormire nel letto come me, ma alla rovescia, perché russa forte e a volte si sbraccia nel sonno e tira le manate, come se al mondo di là gli dicessero quel che ho combinato nei frutteti. Invece della mia faccia, da quarant'anni si ritrova con un paio di calcagni accanto al cuscino.
Il Divo ha quelle manine mostrificate dal lavoro, con le unghie piccine. E il collo l'ha perso proprio, con il passare del tempo. È come un aborto all'incontrario: nato per bene, a poco a poco si è trasformato in uno scaldabagno tutto schiena. Mi fa schifo soprattutto d'inverno, quando a letto, per via delle zizzole, allunga i piedi dalla parte mia, sfiorandomi con il ditone. Eppure all'inizio non potevo stare senza l'arnese che mi dava senza tregua, anche dopo un doppio turno giù, nelle gabbie di Ribolla. Saranno mille anni che non lo veo nudo, ma in compenso gli lavo le mutande da una vita e lo mando fuori come un signorino. Proprio non so come nel frattempo si sia tolto i capricci, e neanche ci penso. Ho tenuto su la facciata della moglie perbene e tanto basta.
Per la prima foto, la fonte è qui.
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