Tutti i contenuti di Domenico Calcaterra
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Tipo: BlogGio, 10/01/2013 - 12:18
Che La collera di Andrea Di Consoli (Rizzoli, 2012) sia romanzo ambiziosissimo lo si intuisce sin dalla dedica in calce con la quale l'autore chiama in causa «chi non ha paura di fare i conti» con l'«eterno fascismo degli italiani», amaramente già denunciato da Carlo Levi nel suo Cristo si è fermato ad Eboli (1944); in quell'Italia dove, gli farà eco più tardi il Candido (1977) di Sciascia, «non finisce mai niente». Ma si sbaglierebbe a considerarlo soltanto come l'ulteriore prova ascrivibile alla già cospicua e fortunata schiera del romanzo meridionalista, ché il libro è sì questo, ma anche altro. All'implicito racconto civile fa infatti da cassa di risonanza, la forza di un destino che s'impone, l'inesorabile consumarsi di una caduta che dura un'intera vita, la tragedia ottusa e affatto priva di catarsi del calabrese Pasquale Benassìa. Mosso da un inestinguibile furore che lo induce a sposare il partito preso di rinnegare tutto e tutti, ad avere in spregio non soltanto la propria terra ma persino la famiglia d'origine, Pasquale consuma la sua vita a concepire un superiore piano di emancipazione, concentrato com'è nella sua «religione...
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Tipo: BlogMar, 23/10/2012 - 12:03
Appare ormai chiaro come i narratori italiani abbiano ancora qualcosa da dire quando, liberi dai legacci di uno sperimentalismo che, nelle migliori delle ipotesi, diviene sinonimo di mera esasperazione linguistica o giovanilismo a buon mercato, riescono a svicolare da schemi logori e corrivi.
Così è per Città distrutte dell'esordiente Davide Orecchio (Gaffi, 2012), uno dei libri senz'altro più importanti e singolari di questa stagione, insieme a Qualcosa di scritto di Emanuele Trevi. Due "romanzi" nel segno dell'ibridazione delle forme. Che, se Trevi compie l'operazione di appaiare critica letteraria e racconto, ripartendo dall'autobiografia intellettuale come prova d'immaginazione e di stile, Orecchio non è da meno, quando si appresta a rinnegare il romanzo-romanzo, scegliendo la via delle "biografie infedeli", per farlo poi rientrare dalla finestra. Mi spiego meglio.
I sei tasselli, muovendosi dichiaratamente sul terreno manzoniano della verosimiglianza, scritti nello «stile del resoconto», letti insieme, ambiscono a presentarsi (in profonda e interna...
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Tipo: BlogVen, 21/09/2012 - 10:03
Claudio Morandini ci ha abituato a costruzioni narrative solidissime. Dall'esordio con Le larve (Pendragon, 2008), saga familiare dalle atmosfere gotiche, al singolarissimo Rapsodia su un solo tema. Colloqui con Rafail Dvoinikov (Manni, 2012), finora il suo libro migliore, romanzo-matrioska della storia (autenticamente falsa) d'un indimenticabile personaggio come il vessato e incompreso compositore russo Rafail Dvoinikov. Non meno convincente riesce ora questo suo ultimo A gran giornate (La Linea, 2012) con il quale, in barba (come il Permunian de La Casadel Sollievo Mentale) ad ogni utilitarismo mimetico, tira fuori le stralunate avventure di personaggi comici e disperati in lotta con le impreviste deviazioni prese dai corsi delle loro esistenze (e "deviazioni" avrebbe anche tranquillamente potuto intitolarsi il romanzo), mettendo insieme quasi una sorta di repertorio di varietà manicomiale: dall'Onorato Casamagna che sceglie come compagna di vita una bambola gonfiabile, al Tullio Semenzani, ex carcerato truffatore e seduttore di vecchiette danarose o al sacrestano Nathan, che fa del naturismo...
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Tipo: BlogVen, 17/08/2012 - 09:57
Esce postumo questo La mia isola è Las Vegas (Mondadori, 2012), l'ultimo libro, personalmente concepito e voluto dall'ultimo dei grandi siciliani, Vincenzo Consolo. Si tratta di un'ampia raccolta di racconti e prose narrative (52 per l'esattezza) che coprono un arco di più di cinquant'anni, dai primissimi esordi fino al 2011 (con qualche inedito ripescato dall'archivio dello scrittore). Stretto parente dell'altro grande libro di racconti consoliani (Le pietre di Pantalica, 1988), per la volontà di raccontare d'una civiltà sepolta, quella del mondo contadino colto al suo tramonto, per l'accendersi del racconto a partire dai luoghi della memoria, per quella voglia viscerale di percorrere e ripercorrere, possedere ogni angolo dell'Isola, oltre a testimoniare il profondo scavo da cui sono nati tutti i suoi libri maggiori (e qui troviamo non pochi incunaboli di Retablo, del Sorriso, di Nottetempo, dello Spasimo), il vero motivo d'interesse sta oggi nella possibilità di leggere tranquillamente questa silloge insieme come un'autobiografia intellettuale e come segno del suo personale manierismo sperimentale (mi si passi l'apparente ossimoro). A principiare dalla scrittura...
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Tipo: BlogGio, 26/07/2012 - 17:37
Si muove sull'orlo del come sarebbe potuto andare a finire, il romanzo d'esordio Il corridoio di legno (Voland, 2012) di Giorgio Manacorda, germanista affermato, critico letterario (del quale ci piace almeno qui ricordare la sua Apologia del critico militante, Castelvecchi, 2006), studioso di poesia contemporanea e poeta egli stesso. È infatti una storia ucronica, nella quale si ipotizza come, dalla lotta armata degli anni Settanta in Italia, scaturisca un forte rigurgito militarista al servizio d'un governo autoritario, andato al potere proprio in quel frangente storico, per preparare, segretamente, un colpo di stato. A far cortocircuitare le due antitetiche spinte, attraversandole entrambe, dal di dentro, avendo un ruolo da leader, è Silvestro: prima ideologo egualitario della lotta armata, dopo cinico strumento al servizio della più cruenta repressione, in un'Italia dove «il terrore ha stroncato il nascente terrorismo». Va subito precisato come Manacorda non sia affatto interessato ad una ricostruzione minuziosa e dettagliata di quegli anni bui della storia del nostro Paese; più che altro, quella temperie rovente, appena evocata nel suo clima generale, diventa l'ossatura a partire dalla quale far lievitare un affresco storico-fantastico che, piuttosto, sembra voglia...
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Tipo: BlogSab, 16/06/2012 - 11:44
Come già sottolineato da più d'un recensore (La Porta e Onofri), con Il trono vuoto Roberto Andò si pone d'innanzi alla ardua scommessa di scrivere un romanzo sulla politica, sulla vacuità terrificante del potere politico e, inevitabilmente, sull'Italietta berlusconiana. C'è riuscito? Forse che sì, forse che no. Ma non è questo il punto. Piuttosto il punto è capire che tipo di romanzo, al suo esordio, Andò ci consegna. Nel risvolto di copertina si legge: «favola filosofica sulla rifondazione della leadership in un paese malato». Epperò a lettura ultimata si capisce bene che si tratta d'una definizione limitata. Ma procediamo con ordine.
Siamo a Roma. Enrico Oliveri, segretario del principale partito d'opposizione il cui consenso è ormai in caduta libera, snervato dalle «miserabili beghe di partito», lascia un semplice biglietto che rassicuri il fido collaboratore Andrea e la moglie Anna, e mette in pratica il piano b (forse da lungo tempo meditato) di staccare per qualche tempo la spina, concedersi una boccata d'aria, chiedendo asilo, in Francia, a Danielle, la fiamma dei...
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