"Scritture a perdere. La letteratura negli anni zero" di Giulio Ferroni
Autore: Chiara Dell'AcquaVen, 19/11/2010 - 13:19

Un pamphlet durissimo e necessario, quello di Giulio Ferroni, che in “Scritture a perdere. La letteratura negli anni zero” (Laterza, pp. 110) denuncia la mancanza totale di resistenza intellettuale nell’Italia odierna: «Oggi assistiamo al paradosso di una letteratura che si moltiplica e contemporaneamente arretra, assediata dall’impero dei media, dalla vacuità della comunicazione, dalla degradazione del linguaggio e della vita civile».
Troppi libri pubblicati e al servizio di ciò che il mercato desidera, scritture a perdere, libri mediocri celebrati come capolavori da recensioni frutto di propaganda editoriale e non di cultura critica, che sta scomparendo. Velocità della scrittura, facilitata dall’uso del computer, e fine dello stile balzano agli occhi scorrendo la classifica dei libri più venduti: nuovi scrittori sono politici, cantanti, conduttori televisivi, in un bisogno narcisistico della letteratura di “mostrarsi”, che trova il suo vertice nei festival e nei premi. Senza dimenticare l’imperare del noir, «l’insopportabile arcadia truce del noir, che produce romanzi in serie con la pretesa di mostrare i mali dell’Italia, ma che in realtà non dà luogo ad altro che assuefazione al già dato, trasforma la violenza e le trame criminali in ripetitivo consumo dell’ineluttabile».
Esempi emblematici sono i recenti successi di Giordano e Mazzantini: il giovane Paolo Giordano, vincitore dello Strega 2008 con il romanzo d’esordio “La solitudine dei numeri primi”, pubblicato da Mondadori, gode di un titolo efficace, che illude il lettore e non promette – di scienza non si parlerà mai – anzi offre una storia prevedibile dalla «sospensione dolciastra»; Margaret Mazzantini, vincitrice del Campiello 2009 con “Venuto al mondo” racconta il dramma della Bosnia con un narrare sciatto, intriso di buonismo.
Più in generale il romanzo, incastrato nel gorgo mediatico, è ormai diventato inadatto a rappresentare criticamente il presente. Che letteratura produrre, allora? Ferroni offre al lettore una “pars costruens”, con due strade praticabili: il racconto e l’autofiction. Il racconto, pur poco amato dagli editori, è la forma più adatta ad esprimere la frammentarietà e la pluralità del reale, l’unica in grado di fornire una risposta critica all’aggressione mediatica in atto, attraverso un recupero dello stile e della ricerca linguistica. Un modello in questa direzione è Sebastiano Vassalli, con i tre pezzi che compongono Dio, il Diavolo e la Mosca nel grande caldo dei prossimi mille anni (Einaudi, 2008) ma interessanti sono anche i racconti di Giovanni Martini, Francesco Pecoraro, Silvana Grasso, Andrea Carraro, Antonio Pascale, Vitaliano Trevisan e Antonio Tabucchi, con “Il tempo invecchia in fretta” (Feltrinelli, 2009).
L’«autofiction» rappresenta quella scrittura in cui l’io narrante non è del tutto autobiografico, ma non è nemmeno completamente fittizio e il cui modello più illustre è la “Recherche” di Proust. Ferroni indica le opere di tre autori che meglio di altri esprimono questo genere: Ermanno Cavazzoni con “Storia naturale dei giganti” (Guanda, 2007); “La via” di Fabrizia Ramondino (Einaudi, 2008) e Walter Siti, “Il contagio” (Mondadori, 2009).
«Ricerca dell’essenziale, impegno nell’ascolto del mondo, cura per il suo destino, disposizione a dislocare l’invenzione e a toccare il cuore del linguaggio. Ci saranno nel nostro paese scrittori all’altezza di questa necessità?»
È lo stesso interrogativo che ci poniamo noi lettori.
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