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“Imperial Bedrooms” di Bret Easton Ellis, sei stato fottuto baby!

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Di Giovanni Ragonesi

“Imperial Bedrooms”: il nuovo romanzo di Bret Easton Ellis

Ahi noi, un numero eccessivo di ragazze ha il culo a pera. Una pera tra Braque e Cézanne, su cui le ossessive applicazioni di untuose creme comperate al supermercato non sortiscono mai gli effetti scultorei e rassodanti promessi e desiderati. E purtroppo, ahi noi, un numero eccessivo di ragazzi, malgrado le ore sudate in palestra, trascorre troppo poco tempo sugli step (mediamente considerati un attrezzo poco virile) per riuscire a compattare la muscolatura dei piccoli glutei e creare quelle fossette sulle natiche che eviterebbero l’uso così frequente dell’espressione “culo piatto”.
Tra queste e mille altre fertili considerazioni sul precipizio etico ed estetico sul quale brancoliamo da decenni immemorabili, trascorriamo il tempo – che può variare dai tre ai nove anni – che separa un romanzo di Bret Easton Ellis dal suo successivo. E a proposito dei lavori di Ellis si può e si deve parlare di attesa nella sua accezione più ampia che copre un ventaglio di sensazioni e di circostanze – dalle archetipiche alle abusate alle circostanziali alle intrinsecamente folli – che ci si apre d’innanzi smuovendo un’aria che non ha avuto a disposizione un tempo sufficiente per stagnare e autogenerare lezzo.
Adesso, anno domini 2010, a cinque anni dal perturbante “Lunar Park”, sempre più affascinante e disturbato, con una prosa disidratata e continuando a giocare coi suoi homo fictus in un repechage che riporta in auge – dopo venticinque anni di riflettori puntati altrove – i personaggi di “Meno di zero” che poi sono gli stessi che attraverso la loro rete di parentele e amicizie o semplici conoscenze distratte, hanno popolato i cinque romanzi successivi, dopo tre anni della suddetta attesa – dicevamo – Bret Easton Ellis is back, stavolta con “Imperial bedrooms”.
Conclusasi la tempesta ormonale e i ribrezzi morali per “American psycho”, attraverso un meccanico percorso critico supportato dalla pubblicazione commercialmente doverosa dei racconti di “Acqua dal sole”, si è tentato di fare rientrare Ellis, come fosse un tranquillizzante esorcismo, nella innocua e affollata categoria degli enfant terrible al cui eccesso di fumogeni e all’eccesso di logorroiche interviste, non è seguita alcuna portata in grado di sfamare la sempre cannibale e bulimica tribù dei lettori.
Così non è stato.
Ben nove anni sono stati riempiti da un profondo silenzio editoriale e da una sovraesposizione mondana attraverso cui la banda dei Brat Pack, come amava definirli quella insaziabile di etichette che era la nostra Fernanda Pivano, tentava di tenere in vita la propria mitologia e una autoreferenziale mitologica dissolvenza: per cui si leggeva dell’ennesimo divorzio di Jay McInerney, degli omaggi scontrosi di Tamara Jonowtiz nei confronti di quel nume tutelare di Joan Didion, delle feste organizzate nei migliori hotel newyorchesi sulla tradizione di Fitzgerald a cui David Leavitt portava il suo protegé Gary Glickmann che aveva appena pubblicato alcuni racconti sul “New Yorker” (lo stesso che anni dopo lo sputtanerà con dei racconti pubblicati su “Men on Men”) e dove Amy Hempel cercava di scalzare dal trono dei fotografi Tobiass Wolff preferito da McInerney, feste e interviste dove Carver non veniva mai invitato ma dov’era costantemente tirato in ballo da quasi tutti, dove Peter Cameron faceva delle timide comparse e dove Elizabeth Tallent era sempre ritratta con un calice di Don Perignon in mano; commenti per la stampa dove Hemingway veniva citato per nobilitare la secchezza della risposta oltre a tante altre giustificazioni, saloni dove i monelli dell’east coast si mescolavano al Brat Pack hollywoodiano impersonato da Rob Love e Andrew McCarthy e Demi Moore che spiluccava tartine con crema di trota pepata portategli dalle mani di un McInerney con gli occhi cerchiati in linea con la tradizione del bon viveur di matrice europea e ottocentesca, dove poi Emilio Estevez e Charlie Sheen si contendevano le attenzioni di Elizabeth McGovern ma poi arrivava lui, Ellis, accompagnato dall’amica Donna Tartt, coi suoi impeccabili completi da sartoria italiana in pendant con le guance impeccabilmente rasate e scompigliava le strategie accalappiatore e non si capiva se i quantitativi di polvere inalati erano quelli riportati dalle riviste di gossip o se le dosi erano minori e il resto era un giocare e un posare a favore della scintillante e tetra società dello spettacolo che aveva oramai inglobato anche le sopraffini menti dell’intellighenzia libresca downtown.
Il romanzo ambientato nell’ambiente della moda, di cui spesso si faceva cenno nelle cronache, col rimandarne l’uscita, insieme al suo autore, acquisirono la innocua considerazione che spesso inerisce alla moda stessa al di fuori dei femminei padiglioni dove hanno luogo le sfilate, e di Ellis quasi si parlava come dell’Axl Rose della letteratura: il tempo passava, nuove cose più varie ed eventuali prendevano la luce dei palcoscenici, ma né i Guns n’ Roses facevano uscire il loro fantomatico album né Bret Easton Ellis pubblicava il suo famigerato romanzo modaiolo.
Ma nel 1999, dopo tanto attendere e dopo tanto ciarlare, dopo lo smarrimento delle speranze e l’appannamento delle anfetamine, “Glamorama” irrompe sulla scena letteraria internazionale per ritornare a fare parlare del suo autore, affascinare e turbare i sonni pigri dei suoi lettori, impensierire e incattivire la stampa specializzata.
Ellis, oramai appare innegabile, non riesce a fare rimanere quiete le acque, qualsiasi cosa scriva bisogna che se ne parli, e se ne parla sempre con voci discordi e atonali, come se la critica, in parallelo con le sue storie, ricercasse l’implosione meditata di qualsiasi linea melodica.
“Glamorama” è l’ennesimo grande romanzo americano, uno di quei romanzi che dicono più di quanto vogliano dire e spremono fuori più di quanto il suo autore ha voluto metterci dentro. Nelle sue pagine c’è una visione lucida e spietata del mondo che va ben al di là del realismo, sfoderando una innocente e inquietante vena profetica. C’è il mondo della moda, ma senza starlette, il tutto servito come una cruditè che oramai è – inequivocabilmente – la cifra stilistica di Ellis, dove i sapori sono terreni e fibrosi, al massimo esaltati da un cucchiaino di panna acida e da un tono costantemente surreale e onirico che lo accomuna, su territori diversi, al cinema di David Lynch (è del ’97 “Strade perdute”).
Si quietano gli animi, si quietano i rimandi al romanzo all’indomani dell’11 settembre quando il terrorismo trova spazio negli approfondimenti d’informazione e nei rotocalchi rosa, e in questo stato di quiete, oramai che di Brat Pack non si parla più e i colleghi hollywoodiani sono quasi tutti in disarmo e quelli rimasti in piedi si contendono qualche particina in produzioni televisive non sempre di tutto rispetto, e oramai che solo McInerney è rimasto a portare avanti un nome generazionale, Ellis ha sgombrato gli armadi dalle costose griffe e si concede solo pochi party mensili e sulla sua vita privata fa scendere numerosi coni d’ombra a partire da quelli di una sua sussurrata relazione con lo scultore Michael Wade Kaplan (poi resa pubblica al momento della sua scomparsa e addotta come uno dei motivi che lo porteranno, nel 2005, a lasciare New York per tornare in California, a Los Angeles), in questa presunta quiete, si diceva, Ellis assume i suoi toni più intimi e perturbanti e lascia cadere, come uno strano meteorite un po’ pazzo un po’ sadico, un nuovo romanzo: “Lunar Park”.
Da narratore di razza qual è, e sbattendolo in faccia al mondo per la prima volta, Ellis si fa personaggio di se stesso e mette in moto una macchina di finzione e autofiction in cui il suo io personaggio interagisce con la sua vita quale la stampa l’ha voluta raffigurare; ci sono i suoi fantasmi, c’è Patrick Bateman direttamente dalle pagine di “American psycho”, c’è suo padre morto, c’è l’omaggio tecnico – strutturale e strumentale – al mago dell’horror Stephen King; ci sono i suoi clichè che tutti ci attendiamo, l’anaffettività e le droghe e il sesso post-postmoderno e i dialoghi serrati e poi stoppati e un climax vertiginoso che ascende come una figura di El Greco.
C’è tutto Ellis in “Lunar Park”, ce ne è molto di più, nel senso che con questo romanzo va ben oltre le aspettative, spiazza e sconvolge facendoci entrare in un suo personalissimo incubo che destruttura – neanche fosse una giacca di Armani – il meccanismo autoidentificatorio che caratterizza e sottende ogni forma di lettura, dalla più naif alla più sofisticata.
Ed eccoci giunti nel già menzionato anno domini 2010, quello che abbiamo sotto ai piedi, in cui Ellis torna animalescamente a creare una arena attorno al proprio lavoro. Stavolta si tratta – e anche questo lo abbiamo già detto – di “Imperial bedrooms” (anche il titolo stavolta è meravigliosamente lynchiano).
Sono tornati Clay e Blair e Trent e Julian. Sono tornate le strade e la topografia mondana di Los Angeles. C’è un nuovo cortocircuito narrativo nelle pagine di questo romanzo dove ad essere attraversato è un nuovo incubo che scolpisce e poi spezza un meccanismo relazionale che ha condizionato l’esordio narrativo e che in venticinque anni di perpetrazione ha ostentato l’identificazione psicotica di carnefice e vittima, un meccanismo relazionale che lascia le domande senza risposta, gli sms senza mittente, la paura – adrenalinica e alcolizzata – come unica emotività che riempie i tessuti nervosi, al pari del sangue che inonda i corridoi dell’albergo di Kubrick.
“Imperial bedrooms” sin dalla copertina ci suggerisce il suo contenuto demoniaco. I suoi personaggi sono perenni fanciulli che con la stessa inconsistenza con cui reggevano tra le mani una delle prime Nintendo, adesso reggono le sorti contorte delle loro semplici vite in cui c’è spazio per tutto ma non c’è tempo per nulla.
Dalla copertina demoniaca si passa velocemente alla chiusura del libro attraverso 146 pagine veloci e fluide, ma fluide come uno di quegli sciroppi anni ’80 per la tosse, in cui il liquido era leggermente reso torbido dalla presenza abbondante di codeina, quasi una macchia di petrolio sul mare.
Finito di leggere ti alzi. Ti senti stanco, giusto un po’, ma con la mente vispa come solo può esserlo dopo uno sconquassamento.
Solo dopo che è trascorso qualche attimo in cui magari si è tornati a fare qualcosa di normale come caricare una lavatrice di bianchi e mescolare lo sbiancante al detersivo all’eucalipto, registri il fatto che fisicamente ti è successo qualcosa, che è come se ti fosse sferragliato tra le viscere un oggetto estraneo al tuo corpo.
Sei stato fottuto baby.
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