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Occhi sull'ombelico: letteratura e lettore

Di Alessandro Puglisi

Della narrativa contemporanea e dei lettori contemporanei



C'era una volta la letteratura italiana. E adesso cosa c'è? La narrativa finto-impegnata, delle storie d'amore borghesi, del contenuto voyeurismo familiare, della pseudo-trasgressione; ci sono l'aspirazione a temi inutilmente importanti e allo stesso tempo la loro visione dal buco della serratura. I detective da poltrona, l'esaltazione del campanile, il tedioso recupero del post-risorgimento, la revisione storica dei nostalgici dei bei tempi andati, quando si poteva dormire “con le porte aperte”, travestita da spicciola sociologia, i trentenni dirigenti senza l'amore, l'esistenzialismo d'accatto, sperimentato nei bar durante l'assunzione del caffè mattutino. Qualcosa d'altro ci sarebbe pure, ma questo è un articolo pessimista.

A guardare le classifiche di vendita, indici perversi, non si può non immaginare un lettore italiano medio, intendendo con questa locuzione, sia ben chiaro, il dilettante della libreria, quello che si fionda subito presso lo scaffale dei “più venduti”, l'essere umano di mezza età che al ristorante disquisisce di “letteratura” dinanzi a generose portate, come parlando di uno strano passatempo non meglio specificato; non si può non immaginare, si diceva, questo strano individuo confrontarsi con l'insolito e poi correre tra le braccia del rassicurante. Adagiarsi entro il solco del conosciuto, nel romanzo che unisce la finzione plausibile all'aneddoto accattivante. Sembra già di vedere i suoi occhi illuminarsi di fronte alla copertina del libro su cui campeggiano gli attori del film “tratto da”. Strana creatura, fa quasi tenerezza, tutto stretto nei suoi «quant'è commovente» e «si legge tutto d'un fiato».

Ci sono padri e madri, e figli e nipoti; e storie di vecchie nonne, e di insegnamenti miracolosamente tenuti in vita nel fluire della storia. Lunghe saghe familiari, ancorate ai borghi, e vicende prodigiosamente riemerse dall'oblìo in cui, forse meritatamente, erano precipitate.

C'è poi la poesia onanistica, quella del tecnicismo, del cielo e del sole, delle provinciali che corrono parallele al mare, la poesia del credente a suo modo e quella del relativista della prima ora, tutti insieme appassionatamente benpensanti. E poi, da qualche angolo, spunterà sicuramente uno che rimpiange la beat generation e che crede di poterla riesumare, con un rossetto nuovo ma vecchia e inadatta retorica, ereditata spesso da vetuste formazioni umanistiche. E, nel frattempo, il nostro amico lettore medio ha già ultimato i suoi acquisti, le fascette rosse con strilli a caratteri cubitali lo hanno sedotto.

Bene, quindi cosa ci serve? Difficile a dirsi. Forse solamente, per cominciare, auto-amputarci questa nostra pesante storia dai cuori e dalle menti, sgravarci di un terrificante ingombro, di un clamoroso impedimento. Da lettori, fuggire il solito, guardare qualche volta oltreconfine, fare entrare il minuto e stigmatizzare le “grandi riflessioni”. Da autori (non diciamo scrittori), essere coraggiosi, semplicemente.

E oltre a tutte queste cose ci sono, infine, quelli che, permettetemi l'ironia, si inerpicano per i sentieri dell'ipotassi, credendo così di conferire valore e autorevolezza alla loro creazione, e allo stesso tempo gettando l'ennesimo sbrigativo pasto al professore o critico di turno, dalla barba bianca e la parlata soave, signore delle quarte di copertina.
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