"Carmel" di Gwendoline Riley
Autore: Morgan PalmasGio, 28/10/2010 - 11:42
Di Michela Polito
“Carmel” di Gweondoline Riley (Fazi editore)
Carmel, romanzo d’esordio di Gwendoline Riley, non lo definirei tanto un romanzo quanto un lungo racconto, o, ancora meglio, uno stralcio del diario dell’autrice, forse rimesso a lucido durante uno di quei fantastici corsi di creative writing che pullulano per tutto il regno di sua maestà, o forse prodotto di una ripassata dell’autrice in vista di una pubblicazione che per altro le procurò a suo tempo un premio, il Betty task Award, nonché un’accoglienza, da parte della stampa inglese, invidiabile, tanto per usare un eufemismo, visto che lo definirono uno dei migliori romanzi d’esordio degli ultimi anni. Era il lontano 2003.
La storia, priva di cariche di dinamite collocate ad hoc, né di una trama da chick lit canonica, con donne in carriera mediamente sfigate in combutta con la propria autostima (assente), con lavori perduti e uomini sfuggenti, ruota intorno a una specie di bettola di Manchester, in realtà definita a inizio d’opera “un dive bar in stile americano” in cui lavora la protagonista, Carmel Mckinsco, una che ritiene che rispondere “sono una barista, non una qualunque che lotta per affermarsi” sia un modo più dignitoso di comportarsi, o che “certe persone si portano appresso la loro vita emotiva come un topo morto in una scatola di scarpe”.
Carmel, che è stata definita a buon diritto dal Los Angeles Time una “fata Bukowski in All Star rosa”, ha vent’anni e lavora lì dopo essersi allontanata dalla sua strampalata famiglia e lasciata dal suo ex, Tony, un ordinario bastardo, per cui (capita anche alle migliori) la nostra anti-eroina aveva perso la testa. Carmel, da dietro al bancone del bar, intesse storie sulle vite della fauna degli avventori disperati e nullafacenti che lo popolano, amiche comprese, da cui il taglio diaristico e intimista più che un vero e proprio romanzo.
Carmel è una sorta di riflessione dell’assurdo sulla vita, costellata di battute argute dal sapore inglese, intessuta di riferimenti letterari e cinematografici, molti ma non debordanti, per non parlare del mood decadente che sottende tutta l’opera, dalla bottiglia come fedele compagna di viaggio per treni ferruginosi di periferia alle lunghe passeggiate per le acquitrinose e grigie strade di Manchester, che ne fanno, più che la versione fiabesca e femminile di Bukowski, un’erede spirituale di Henry Miller, proprio per via del suo crogiolarsi nella poesia metropolitana di questo grigiume, abbandono ed hang over costante.
Mi pare che il valore letterario di quest’opera che ho amato molto sia da ricercarsi nella capacità dell’autrice di elaborazione di modelli letterari senza cadere nel plagio o nella mitizzazione, ma, al contrario, rendendoli aderenti a descrivere una condizione umana, quella di spleen, universale, ma sullo sfondo di un cupo inizio millennio.
Ma soprattutto, in quest’epoca di arrampicatrici sociali, attente alle marche e ai kg di troppo, fa sempre piacere leggere di una che va in giro con un paio di All Star bucate, che ha un problema col brandy e con la buona creanza, che si è fatta tatuare addosso la frase di una canzone di Tom Waits del calibro Innocent when you dream, che quando litiga col fidanzato esce dal locale con tutta la non chalance del caso e scaraventa il suo drink contro al muro, che apprezza Bukowski e la Nouvelle Vague e, correndo dietro a un’ideale molto personale di Bellezza, se ne frega di tutte le cose superflue. No perché se non ci fosse qualcuno che controbilancia il gioco, dove diavolo andrebbero a finire le scrittrici, o le donne tutte?!
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