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“Ho rubato la pioggia” di Elisa Ruotolo

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Di Sara Gamberini

“Ho rubato la pioggia” di Elisa Ruotolo

Bisogna pure avercela una mira nella vita: un figlio che arriva, un rumore di passi fuori la porta, un programma fisso alla radio, una speranza in fondo a tutto.
Ho rubato la pioggia (Nottetempo, 2010) è una raccolta di tre racconti lunghi e davvero belli. Un libro fuori dal tempo che pesca nel cuore.
Non ho potuto fare a meno di immaginare Elisa Ruotolo mentre leggevo il suo scritto. Mi è sembrata una donna di altri tempi, dotata di una contemporaneità spirituale più che intellettuale. La pelle sottile che assorbe emozioni che forse son troppe, lo sguardo pacato sulle cose, inizialmente timido anche se mai incerto, dotato anzi di una precisione che all'improvviso diviene quasi veggenza e lascia un significato crudo nel punto esatto dove manca qualcosa.
Un odore di polvere e di naftalina ha accompagnato la mia lettura, una visione di casa vecchia, di arredamento povero ma ben tenuto. Non ho quasi mai visto la luce e ho osservato i personaggi muoversi in uno spazio piccolissimo, molto più stretto di una provincia del sud, pochi metri di libertà, passi sopra alle impronte del giorno prima.

Molto Leggenda, il primo racconto, è il meno riuscito. Ahimè, l'ennesimo campo da calcio in terra campana. Il protagonista, Federico, è un ragazzino che tenta di compensare la miseria della vita del padre facendo coincidere il proprio talento con un desiderio di rivalsa. L'Aquila Nera, la squadra di calcio allenata dal padre, smette di perdere da quando Federico sostituisce un giocatore infortunato. Il protagonista, soprannominato Molto Leggenda, tenta di diventare un calciatore professionista. Il finale, amaro e un tantino pedagogico, spegne la carica narrativa potente delle premesse scegliendo, purtroppo, di rimettere ogni cosa a posto.

A rendere delizioso Il bambino è tornato a casa sono due personaggi secondari sublimi. Si tratta di due sorelle, Bianca, un po' lenta e Irene, simbiotica. Vivono fuse una nell'altra, vendono conserve troppo piccanti, leggono fotoromanzi e sognano guardando le telenovela. Somigliano a due zitelle inglesi di fine '800 che curano ortensie e indossano abiti a fiori color pastello. Abitano invece a Napoli in un incastro fusionale che risparmia loro unicamente la solitudine; sono le cognate di Maria, la protagonista, che trascorre la vita aspettando il figlio Matteo, scomparso, ancora piccolo, un pomeriggio. Il marito fugge mentre per Maria sembra essere sempre lo stesso giorno. Per anni, un giorno dopo l'altro, non aveva pensato che a quello: al caldo della controra, al vapore ondulato che saliva dal basalto irregolare e alla strada deserta del primo pomeriggio, quella da cui Matteo non tornava. Poi, momento narrativo bellissimo, un incontro: Maria non lo sapeva se in quelle ore tornava a essere felice, e se qualcuno glielo avesse chiesto forse non avrebbe saputo venire a capo di niente. A occhio e croce poteva darsi che ci assomigliasse abbastanza, almeno alla calma che le era difettata per anni. Alla sua età non poteva dare né pretendere di più che un amore dato al centimetro, calibrato sulle forze che rimanevano.

Nell'ultimo racconto, Guardami, di prezioso c'è il silenzio, il dolore rimosso che frena la vita, il bisogno d'amore che costringe tutti vicini. Una moglie ce l'avrei pure, ed è una cosa quasi legale, la firma sulle carte e tutto. Ci siamo sposati tre anni fa, io ed Erika, ma solo per una faccenda di coscienza, di creanza. 

Cesare era l'unico amico di mio padre. Assieme avevano fatto solo la prima classe e questo, per poco che sia, era bastato a tenerli combinati a filo doppio, non solo prima ma anche durante e dopo mia madre.
La madre del protagonista abbandona la famiglia quando lui è ancora piccolo, il padre non smette di aspettare, lo sgomento dell'assenza non trova conforto. Compensa un po' la distrazione che con piccoli avvenimenti, legami modesti e nessuna decisione da poter prendere commuove nella pancia.
Nei tre racconti fuga e destino sono questioni centrali, assoluti da cui dipendono le storie. Ogni storia racconta l'assenza di una madre. L'abbandono è un destino che spesso impone un confronto estenuante con il proprio talento come a dire: 'cosa so fare se non ho potuto trattenerti?' 

Ho rubato la pioggia è un libro sofferto, scritto senz'altro assecondando un'urgenza narrativa. Il titolo, quasi una presa di posizione, si riferisce al rimprovero che la madre di Molto Leggenda rivolge ai figli bambini quando escono di nascosto sotto un cielo che non li risparmia e agli adulti che agiscono senza ricavare il minimo guadagno. Rubare la pioggia è assecondare un'illusione mediante un gesto senza ricambio.
La lingua usata da Elisa Ruotolo è bellissima, una lingua in cui la ricercatezza si mescola ai modi di dire in modo sapiente, una scrittura che se a volte pare arrampicarsi senza più scendere, è invece piena di misura, curata come si faceva un tempo, quando a scrivere non si era in molti. 

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