"Sono l’ultimo a scendere e altre storie credibili " di Giulio Mozzi
Autore: Chiara Dell'AcquaMar, 06/07/2010 - 11:12
Di Chiara Dell'Acqua
"Sono l’ultimo a scendere e altre storie credibili " di Giulio Mozzi (Mondadori)
Dopo aver letto questo libro, vi prenderà un desiderio irrefrenabile di citofonare a casa dell’autore, di telefonargli subito per sentirvi rispondere «Buongiorno, sono Giulio Mozzi», di incontrarlo in uno dei suoi innumerevoli viaggi in treno o, magari, in un bar, e di offrirgli «una bottiglietta da mezzo di acqua gassata», rigorosamente non fredda.
Un libro che si legge in un soffio. Centotrenta racconti brevi o brevissimi di Giulio Mozzi, in Sono l’ultimo a scendere e altre storie credibili (Mondadori, pagg. 265). Una raccolta che nasce da un diario pubblico scritto e pubblicato più o meno quotidianamente dall’autore in rete, sul suo blog http://vibrisse.wordpress.com/
Le storie raccontate si svolgono in un periodo compreso dal 30 maggio 2003 al 6 settembre 2007, con la premessa che nessuna è «vera nel senso ordinario della parola», con l’unica eccezione - precisa Mozzi - del racconto del 22 ottobre 2004, intitolato “Dice che i ritardati mentali”, che riporta una conversazione telefonica tra un ragazzo handicappato e un tal Robbé, avvenuta un pomeriggio, nella metropolitana a Roma: «lì sono stato un semplice trascrittore, ed è la storia più bella».
Osservatore attentissimo delle cose umane, con feroce ironia e autoironia, Mozzi descrive scene quotidiane che molto spesso sfociano nel paradosso, in un gioco di equivoci il cui effetto immediato è il riso, mai scevro dalla riflessione. Orso solitario, soprattutto in treno, come l’Eurostar delle 6.54 per Milano, quanto più immerso nelle sue eteroclite letture (Lukács, Blumenberg, Mila, fumetti giapponesi, Barth) tanto più con i suoi occhi e le sue orecchie, Mozzi si diverte a tratteggiare il comportamento dei viaggiatori, come quello di salire in treno e occupare, senza preoccuparsi, il posto prenotato da altri.
Oppure ci offre resoconti di gente sconosciuta che citofona a casa sua o chiama per interviste impossibili o per vendere di tutto, finanche una tomba al cimitero; comprese le telefonate di aspiranti scrittori desiderosi di pubblicare, in orari improbabili.
Una riflessione lucida e senza incantamenti sulla comunicazione, oggi. Siamo soli, anche fra mille. E l’incomunicabilità è forse il vero protagonista di queste storie, la tendenza a non ascoltare, o ad ascoltare solo quello che vogliamo.
Eppure, la magia di un incontro casuale, anche di pochi minuti o secondi, può lasciare tracce indelebili e le pagine più belle sono due racconti “Una felicità terrena” e “Paola”, leggere per credere.
Delle tecniche narrative, sicuramente quella privilegiata è il dialogo e la ripetizione di frasi, gesti, verbi (il verbo “dire” su tutti, coniugato molto spesso alla 1° e 3° persona del presente indicativo) è voluta dall’autore «perché la quotidianità è soprattutto ripetizione e banalità».
Nelle illuminanti pagine finali, l’autore riflette sul genere del diario pubblico e sulla «difficoltà di mandare avanti – io, che sono un orso – una vita professionale fatta di relazioni», testimoniata, nei racconti, dalla difficoltà di Mozzi, e più in generale, dell’intellettuale, di farsi capire dalla gente comune, come nei dialoghi surreali con due poliziotti, che rinunciano alla conversazione, perché «quello lì è filosofo». E non a caso, nelle ultime righe, l’autore affida al lettore una domanda che gli sta molto a cuore e che gli è rimasta dopo la rilettura del romanzo: «Chi è lui? Chi è quest’uomo che sembra non saper praticare alcuna comunicazione se non sotto il segno del sadismo reciproco?»
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