Intervista a Claudia Durastanti
Autore: Morgan PalmasMer, 14/07/2010 - 10:31
Di Morgan Palmas
Claudia Durastanti si presenta ai lettori di Sul Romanzo
Buongiorno, vorrei iniziare chiedendole a quale età si è avvicinata alla scrittura e se è stato o meno un caso fortuito.
Direi che è stata una scelta deliberata. Gli altri scoprivano la scrittura a scuola, io l'ho fatto non andandoci. Sono stata una bambina fortemente assenteista, marinavo le lezioni per chiudermi in soffitta a scrivere e leggere, prendendo tutto quello che mi capitava sotto mano: fumetti, poesia beat, letteratura femminista, libri non esattamente indicati sui manuali di pedagogia. Mi sono ritagliata uno spazio alternativo, isolato, dove tutte le storie che leggevo si confondevano tra di loro e a queste si aggiungeva la necessità di esprimere la nostalgia e la rabbia causate dal trasferimento della mia famiglia dagli Stati Uniti. Ho imparato presto a dosare lo sfogo intimista e la volontà di raccontare cose che avessero senso anche per gli altri, a giocare con questa rivelazione di sé e il progressivo occultamento, il mimetismo che sta alla base di ogni narrazione. Poi a diciassette anni è arrivato il primo romanzo compiuto, quello che fai leggere agli amici che ti dicono che è bellissimo anche se non è vero.
Se consideriamo come estremi l’istinto creativo e la razionalità consapevole, lei collocherebbe il suo modo di produrre scrittura a quale distanza dai due?
Sto facendo un viaggio da un estremo all'altro. Direi che al massimo della razionalità consapevole smetterò di scrivere, potrei arrivare a costruire delle confezioni bellissime per cose che non hanno il minimo significato. Verrebbe meno l'urgenza. Ritengo invece che tutto quello che si riesce a dire in mezzo è interessante. La mia era una scrittura veloce, movimentata, narcisisticamente infatuata del flusso di coscienza, poi c'è stato un progressivo rallentamento, la persuasione dell'importanza esercitata dalla trama. Prevedo che razionalità applicata e congetture narrative diventeranno sempre più accentratrici, a discapito della spontaneità. Ma uno scrittore dev'essere in grado di esercitare una certa incoscienza che lo salva dall'eccesso di costruzione e raziocinio. Se non riesce più a farlo, forse è arrivato il momento di lasciar perdere.
Moravia, cascasse il mondo, era solito scrivere tutte le mattine, come descriverebbe invece il suo stile? Ha un metodo rigido da rispettare o attende nel caos della vita un’ispirazione? Ce ne parli.
Tendo a distinguere tra scrittura ed editing; la prima procede per lampi necessari, anche molto distanziati tra di loro, l'editing è un'imposizione che fai a te stesso, la responsabilità nei confronti del testo, anche a discapito della propria indole. Non percepisco la scrittura come un lavoro, non riesco a relazionarmici come se fosse un'attività impiegatizia. Quando lo faccio i risultati lasciano a desiderare. Ho un stile compulsivo, mi stanco in fretta, resto a leggere la stessa frase per ore solo perché suona bene. Poi, consapevole che la letteratura è altrove, mi rassegno e inizio a ragionare su schemi, strutture, snodi credibili. C'è un lasso di tempo infinito tra queste due fasi. Vivere in un momento di disoccupazione creativa aiuta. L'unico svantaggio è che in assenza di un lavoro vero e proprio la scrittura diventa quasi una costrizione, perde tutto l'appeal che invece aveva quando non c'era mai tempo per dedicarsi solo a quello. La pagina bianca terrorizza, come si fa a sceglierla tutti i giorni, programmaticamente?
Di che cosa non può fare a meno mentre si accinge alla scrittura? Ha qualche curiosità o aneddoto da raccontarci a riguardo?
La scrittura cresce e si evolve insieme alla persona. Sin dall'inizio ho scoperto che mi riesce meglio a determinate altezze, dentro le soffitte o stesa sui tetti. Se da adolescente non potevo fare a meno di scrivere per strada, con un walkman messo male e carta e penna, adesso mi ritrovo spesso immobilizzata davanti alle scrivanie. C'è stata poi la fase significativa della scrittura in viaggio, nei treni e negli aeroporti, dove scrivere serviva a vincere il disagio della propria solitudine in pubblico, quella che ti faceva vergognare. La scrittura diventava così una specie di superpotere, un'arma di salvezza quando non sapevo cosa fare. Ho preso appunti in luoghi molto strani, non perché avessi voglia di scrivere, quanto per una questione di difesa. Adesso il processo è più statico, sono sedentaria. Ma ho bisogno di rumore, in ogni caso, per una questione di movimento.
Wilde si inchinò di fronte alla tomba di Keats a Roma, Marinetti desiderava “sputare” sull’altare dell’arte, qual è il suo rapporto con i grandi scrittori del passato? È cambiata nel tempo tale relazione?
Oscilla tra ammirazione quasi adolescenziale (recentemente ho rispolverato tutta la mia collezione di Don De Lillo, ho trovato pagine e pagine incise da fitti segni a matita in cui scrivevo cose tipo “maestro, maestro, maestro”) e frustrazione. Col tempo è diventato un approccio più calmo, riflessivo, ma sono convinta che uno scrittore debba sentire il tipo di tensione dovuto alla consapevolezza di non poter superare determinati limiti. Ciononostante, è un tentativo che dev'essere perseguito: è il conflitto con il passato che rende i contemporanei meno trascurabili. Ovviamente dipende tutto dagli autori che si assumono come riferimento. Ma credo anche che i capolavori vadano letti e dimenticati per un po', almeno in fase di scrittura. Non mi piacciono i romanzi a tesi, quelli che si propongono volontariamente di “rifarsi a” o di sfidare un determinato autore. Uno deve arrivare a trovare la sua voce, la scrittura richiede anche la capacità di glissare sugli altri.
L’avvento delle nuove tecnologie ha mutato i vecchi schemi di confronto fra centro e periferia, nonostante ciò esistono ancora luoghi italiani dove la letteratura e gli scrittori si concentrano? Un tempo c’erano Firenze o Venezia, Roma o Torino, qual è la sua idea in merito?
La letteratura si coltiva in spazi periferici. L'idea di un centro, dei caffè, anche virtuali, o di una scuola comune fa parte del bagaglio romantico con cui uno scrittore si approccia all'idea di letteratura, ma è un qualcosa che può tranquillamente restare confinato nella mitologia, per quel che mi riguarda. La solitudine è un privilegio. Ci sono autori anche contemporanei che ammiri, ne conosci qualcuno, ci scambi quattro chiacchiere, ma resta un fenomeno isolato e privato. So che esistono delle scene, ma non le frequento.
Scrivere le ha migliorato o peggiorato il percorso di vita? In altre parole, crede che la letteratura le abbia fornito strumenti migliori per portare in atto i suoi desideri?
Non credo che la scrittura abbia migliorato o peggiorato la mia vita semplicemente perché è difficile ricordare un periodo in cui non ne ha fatto parte. È stato un processo quasi automatico, spesso doloroso, a volte dotato di qualche intuizione interessante, altre volte noioso. È destinato a invecchiare, presumo che il momento in cui la scrittura non mi ripagherà emotivamente come mi aspetto sarà abbastanza traumatico. È un bilancio che si può stendere solo a posteriori, parliamone tra qualche anno. Poi c'è la questione della pubblicazione, che è un'altra cosa. Se va bene i riconoscimenti e i soldi per le bollette migliorano la vita. Il resto la rende miserabile.
La ringrazio e buona scrittura.
Grazie a voi.
Claudia Durastanti è nata a Brooklyn nel 1984. Vive e lavora a Roma. Ha esordito con Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra (Marsilio, 2010). Scrive di musica su Indieforbunnies. (www.indieforbunnies.com)
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