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“In acque profonde” di David Lynch

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Di Michela Polito

David Lynch, fra arte e meditazione

In acque profonde non è un’opera autobiografica in senso stretto perché è molto frammentaria, una raccolta di aneddoti sulla vita e sulla carriera di questo grande regista ed artista eclettico che è David Lynch, costellata da riflessioni sparse, il cui filo conduttore non è l’ordine cronologico come in qualsiasi opera autobiografica tradizionale ma il ruolo che la meditazione trascendentale ha rivestito per lui. 

Ho avuto l’impressione che il nucleo dell’opera, cioè come possa la meditazione (in particolare quella trascendentale praticata dallo yogi Maharishi) influire sulla creatività, non sia emerso in maniera molto chiara, rimanendo più che altro l’espediente che ha dato vita a questa sorta di lunga chiacchierata. Non è molto esaustivo da questo punto di vista, se è questo che ci si aspetta, e alcuni argomenti restano un po’ campati per aria. Per esempio sarei stata curiosa di sapere come diavolo sia stato possibile, la prima volta che ha messo piede in un centro di meditazione trascendentale, dopo soli venti minuti di recitazione di mantra, che abbia raggiunto la beatitudine e la meditazione profonda così come per magia. Inoltre quando afferma che va in meditazione e ne esce con delle idee mi sembra un po’ il percorso che qualsiasi creativo, copywriter o quant’altro conosca: lo step successivo dopo il brain-storming deve essere necessariamente staccare la spina per dare modo al proprio inconscio di lasciar germogliare l’idea che si è desiderata durante il brain-storming. Poi che si vada al cinema, a giocare a golf, in un bordello o in un centro di meditazione trascendentale poco importa. Tuttavia penso che sia più interessante una chiacchierata con lui piuttosto che trovarsi di fronte a un manuale di meditazione trascendentale applicata. Anche perché penso che conoscere le vicende che hanno portato un grande a diventare un grande siano fonte di arricchimento per tutti a prescindere. Rispetto alla questione meditazione ho apprezzato più che altro alcune sue considerazioni del tipo: Se la beatitudine inizia a crescere dentro di te, è come una luce: ha un effetto sull’ambiente circostante. Oppure: La beatitudine è come un giubbotto antiproiettile. Una protezione. Se ne hai a sufficienza diventi invincibile. Così quando i sentimenti negativi se ne vanno, ti entusiasmi più facilmente, sei più energico, più lucido. Allora puoi davvero rimboccarti le maniche e tradurre le idee e tradurre le idee in una qualsiasi opera d’arte.

Comunque, a parte l’argomento, mi sono particolarmente goduta la sua voce di Lynch, questo suo modo rilassato e colloquiale di porsi che ricorre spesso alla seconda persona. Adoro la prosa essenziale e diretta degli anglosassoni almeno quanto trovo indisponente in una maniera ormai intollerabile la logorrea altisonante di certa intellighenzia italiana, retaggio di questa ridicola dicotomia tra cultura alta e cultura volgare che ci portiamo dietro in una maniera più o meno inconscia ma dalla quale ci siamo anche emancipati grazie a felici incarnazioni di gente come Celati e Tondelli. Pionieri a cui sono seguiti altri, grazie al cielo, col loro lavoro di aderenza del parlato allo scritto, hanno svecchiato la voce della nostra narrativa facendo sì che leggere un libro non ti desse più l’impressione di avere per le mani la traduzione di una versione di latino o di stare presenziando a un comizio di Togliatti e che, stando nella provincia, hanno trasceso la provincia, che è poi quello che emerge anche dalla filmografia di Lynch. Questo apprezzamento sulla prosa anglosassone non è una questione di becera filantropia ma è dovuto al fatto che c’è qualcosa, in questo modo genuino di raccontare, che già di per sé è rappresentativo del suo modo di lavorare e di guardare le cose. Come se quello che davvero conta fossero giusto le mani callose del falegname Gunter o la resina della corteccia di pino dei boschi della sua infanzia.
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