Modernità di Menandro: l’arte comica nella società in trasformazione
Autore: Adriana PediciniGio, 03/06/2010 - 08:29
Di Adriana Pedicini
Menandro e la comicità
Prima parte
Della vasta produzione menandrea fino alla fine dell’Ottocento erano sopravvissuti un migliaio di brevissimi frammenti ed una raccolta di 758 gnomai, composte per lo più di un sol verso, da cui emerge la grandezza di Menandro come filosofo e pensatore, ma sfugge o si intravede appena la sua arte comica, nonostante le concordi testimonianze in suo favore.
Le numerose scoperte di papiri egiziani confermano che in epoca imperiale gli scritti di Menandro avevano una grande diffusione; ma restituiscono pochi brani, anche se di una certa ampiezza, di pochissime commedie.
Ma, a cominciare dalla fine dell’Ottocento, fortunati ritrovamenti papiracei hanno portato alla luce una commedia pressoché intera, il Duskolos, insieme con diverse altre di una certa estensione, che, nonostante lacune e guasti, permettono una complessiva intelligibilità della trama.
Risale al 1958 la pubblicazione dell’ultimo e più fortunato ritrovamento papiraceo di Menandro: il Duskolos, infatti, è l’unica commedia di questo autore pervenutaci quasi intera, in quanto su un totale di poco più di mille versi, con integrazioni ed emendamenti più o meno felici, se ne possono leggere 969.
Per entrare nel vivo del teatro di Menandro e comprendere i problemi agitati sulla scena bisogna gettare uno sguardo sulla società greca, e ateniese in particolare, e considerare brevemente il lento, ma inarrestabile processo di rinnovamento, che caratterizzava gli anni a partire dal III secolo a.C.. Il processo di trasformazione, infatti, che aveva visto sostituirsi alla collettività il singolo individuo, in Menandro appare ormai un fatto compiuto e consolidato.
I protagonisti del suo teatro sono cittadini di una tranquilla località ai margini dell’Attica, ai confini con la Beozia, lontana dai centri direttivi del potere politico, passato ormai nelle mani di uno solo. Di questo radicale cambiamento sembra che nessuno provi rimpianto o si impegni in azioni efficaci per ristabilire il vecchio ordine. I protagonisti, sia liberi che schiavi, soggiacciono ai nuovi eventi con rassegnazione, conducono un’esistenza che trova nella famiglia e nei suoi valori il fulcro dei loro principali interessi. Emerge, in linea di massima, una società in un certo qual modo borghese, moderatamente benestante, ma non schiava delle differenze di censo, amante di un’esistenza esente da stravaganze o frenesie e forse fin troppo vigile a salvaguardare la propria onorabilità.
La vita, purtroppo, non è sempre facile per tutti: e dal testo della commedia emerge in tutta la sua crudezza l’infelice sorte dei poveri, la faticosa esistenza del contadino alle prese con un terreno avaro, le varie disavventure per recuperare e conservare beni, che, se pur vili e di poco conto, costituiscono le uniche risorse di un mondo non sempre apprezzato nelle sue sfumature.
Proprio su queste sfumature, che ad un lettore frettoloso e distratto possono apparire di poco conto, è incentrato il teatro di Menandro: proprio queste sfumature offrivano il lato a quell’amaro sorriso, che lo spettatore ateniese aveva sulle labbra al momento della rappresentazione.
Significato particolare acquista, in questa commedia, almeno davanti agli occhi del protagonista Cnemone, il Duskolos appunto, la differenza di censo: la figlia è povera; il pretendente, Sostrato, che viene dalla città, invece, è un ricco benestante, che per amore si sottopone al massacrante lavoro di dissodare un campo, per fingersi povero e della stessa condizione sociale.
Entra in scena, a questo punto, la fede nella religione dei padri. I fasti e le suggestioni delle antiche credenze, la fede negli antichi culti, conservatisi vivi solo nei centri lontani dai tumultuosi agglomerati urbani, sono ormai un ricordo. I protagonisti presenti nella commedia sono molto tiepidi nei loro slanci religiosi, si mostrano disorientati dai convulsi ed imprevedibili avvenimenti storici dell’ultimo periodo ed hanno imparato a dipendere sempre meno dalle tradizionali divinità del passato: il presente, infatti, costituisce l’unica certezza, mentre il futuro è avvolto nella nebbia e nell’incertezza.
Il culto di Tuche, dai più considerata ormai una vera dea, evidenzia la crisi della religione tradizionale seguita al crollo della polis, e, nello stesso tempo, il trionfo dell’individualismo.
D’altra parte il pubblico, che ancora affolla i teatri, non si aspetta più profondi insegnamenti su temi di portata universale, ma uno spettacolo gradevole, facile da seguire ed esente da problematiche riguardanti speculazioni filosofiche e teologiche o da riferimenti alla situazione politica e a personaggi pubblici, come era avvenuto nella commedia “antica” di Aristofane.
Nei suoi tratti esteriori il teatro di Menandro obbedisce ad uno schema collaudato, semplice e ripetitivo, incentrato sulla vita privata del personaggio, con tutti i suoi difetti, soprattutto quelli più graditi al pubblico. Per tener desta l’attenzione dello spettatore, Menandro non esita ad introdurre elementi che turbino la tranquillità della famiglia o che la scuotano improvvisamente con una novità, che rischia di disarticolarla in maniera irrimediabile ed irreparabile. Questi imprevisti possono minare il legame della coppia, che viene messo in crisi; altre volte, come nel caso del Duskolos, è l’amore di un giovane spasimante, di buoni sentimenti, che si trova davanti ad improvvisi ed insormontabili ostacoli. Anche in questo caso, come in tutti gli altri, nonostante la gravità degli impedimenti, che vengono rimossi l’uno dopo l’altro, la vicenda si conclude lietamente, con la celebrazione delle nozze, desiderate dai giovani e accettate dal Duskolos.
Questo schema, che potrebbe appiattire la commedia con la sua ripetitività o risolversi in sterile intrattenimento, in Menandro diviene compiuta opera d’arte, perché egli riesce ad infondere nei suoi personaggi, nonostante la loro tipicità esteriore derivi dalle figure tradizionali della commedia, quel soffio vitale che li caratterizza come individui veri ed autonomi sulla scena, non caricature di tipi funzionali alla vicenda che viene rappresentata.
La configurazione del teatro di Menandro è essenzialmente antropocentrica, erede, in un certo senso, dell’esperienza e del retaggio euripideo. Il protagonista di Menandro, come quello di Euripide, è un uomo reale, vivo e palpitante, alle prese con le normali e banali avventure e disavventure quotidiane. Sulla scena sfilano uomini con caratteri ben definiti, come in una piazza di una qualsiasi città greca.
Nella delineazione di questi personaggi non è mancato chi ha voluto vedervi l’influenza dei “Caratteri” di Teofrasto. Ma mentre questi sono eccezionali ed esemplari per l’acutezza con cui vengono delineati, quelli di Menandro, per l’estrema adesione alla realtà, non sono medaglioni immoti e personaggi privi di vita interiore. La stretta relazione fra i caratteri di Menandro e quelli di Teofrasto sembra garantita dal fatto che alcuni titoli si identificano con alcuni tipi, come l’adulatore, il diffidente, il superstizioso, il misantropo.
L’uomo di Menandro nella sua normale e banale quotidianità è caratterizzato da una raffinata e complessa spiritualità, che è indice di un più maturo umanesimo, che, attraverso Terenzio, influenzò notevolmente la cultura latina. L’uomo di Menandro non mena vanto che la propria civiltà e la propria educazione siano superiori a quelle degli altri uomini.
Siamo agli antipodi di quanto Euripide mette sulla bocca di Giasone nei confronti della “barbara” Medea:
“Innanzi tutto è la terra di Grecia che abiti e non un paese barbaro; conosci la giustizia e puoi vivere secondo le leggi e non secondo le norme della violenza; tutti i Greci conobbero la sapienza tua e ne hai acquistato fama; se tu abitassi ancora laggiù, agli estremi confini del mondo, nessuno parlerebbe di te”.
Ed ecco la riflessione storica di Pericle, quale leggiamo in Tucidide:
“Affermo che tutta la città è la scuola della Grecia, e mi sembra che ciascun uomo della nostra gente volga individualmente la propria indipendente personalità ad ogni genere di occupazioni e con la più grande versatilità accompagnata da decoro. E che questo non sia un vanto di parole più che una realtà di fatto lo indica la stessa potenza della città, potenza che ci siamo procurata grazie a questo modo di vivere”.
Se l’ateniese del V secolo era pienamente cosciente d’essere un unicum per cultura e libertà personale rispetto al resto dell’ecumene, ora che il nuovo assetto storico e politico era profondamente cambiato, della nuova realtà venutasi a creare, del rapporto fra Atene con il mondo barbaro o semplicemente con quello agreste, si dava una lettura ed una riflessione diversa. In questa delicata fase della cultura attica l’orgogliosa presunzione degli Ateniesi di essere i portatori di un civiltà diversa e più progredita viene abolita da Menandro, il quale non esita a collocare l’unicità proprio nel suo essere uomo e non nella sua appartenenza ad un determinato demos o polis. Esemplare, a riguardo, è quanto si legge nella Samìa:
“In nome degli dei, chi è legittimo, chi è bastardo a questo mondo, se siamo tutti uomini?”.
Sicché il messaggio della poesia di Menandro vuole essere un invito al recupero di un umanesimo integrale, della speranza e della solidarietà umana, in cui domina con uno spessore particolare il sentimento dell’amore, inteso non come tragica passione, ma come stimolo capace di arricchire l’animo umano di bontà, di tenerezza, di altruismo, di abnegazione.
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