Intervista ad Andrea Melone
Autore: Morgan PalmasMer, 23/06/2010 - 10:32
Di Morgan Palmas
Buongiorno, vorrei iniziare chiedendole a quale età si è avvicinato alla scrittura e se è stato o meno un caso fortuito.
Ho scritto sempre con vergogna e senza nessuna fiducia.
Giardini di loto, libro che è uscito nel 2010, era già pronto nel 1994, a parte qualche taglio e insignificanti aggiunte. A quell’epoca trascorrevo pigri pomeriggi ad ascoltare Bach e Gesualdo da Venosa a casa di Raffaele Manica, il grande critico letterario: non gli ho mai fatto parola di niente negando anzi, talora. Avrei preferito perdere un braccio. Studiare, tradurre: questo dovevo fare, e mi piaceva. I miei mi mantenevano a Roma. Insomma, con quale coraggio avrei confessato loro: “Sto scrivendo romanzi e racconti?”. Scrivere era da disadattati, da spostati, da impotenti. Chi sa vivere a vent’anni si fa comprare una macchina e vi corica le sue amichette.
Non ho mai sentito il fuoco dell’arte né il crisma della missione né tanto meno l’uzzolo di essere qualcuno. Gli uomini producono arte come i ragni la tela e i bruchi la seta. Ne sono convinto.
Al ginnasio mi misi a scrivere un racconto senza sapere quale personaggio dovesse fare che cosa, completamente disancorato non solo dalle mie esperienze ma da una visione d’insieme. Ho dovuto interrompere sbigottito. Ero caduto dentro un pozzo di inesplicabili desideri e passioni e onnipotente terrore. Ho cominciato a frequentare i classici e i moderni, le grandi maestà della scrittura. Leggere e scrivere, sistole e diastole, un unico cuore, un unico atto.
Se consideriamo come estremi l’istinto creativo e la razionalità consapevole, lei collocherebbe il suo modo di produrre scrittura a quale distanza dai due?
Se la scrittura sia invasamento o tecnologia retorica è questione vecchissima. Già Platone se ne occupa dall’Apologia al Fedro fino alla Repubblica passando per il graziosissimo Ione. Quanto a me, credo che possediamo una memoria della specie, dell’essere homo; la memoria del terrore della nullità, della mestizia e di tutti i coaguli nevrotici della transitorietà, e che questa memoria, verificata dall’esperienza, sia una delle più robuste spinte all’espressione. A questo punto, scrivere significa formalizzare, cioè dare forma a questo amalgama, un atto integralmente cosciente e razionale. Lo spazio della narrabilità è illimitato non perché lo siano le azioni o i sentimenti, sempre analoghi, ma per l’infinita variabilità della forma. L’idea della forma è il presupposto necessario dell’atto di scrittura. Per ora la penso così.
Moravia, cascasse il mondo, era solito scrivere tutte le mattine, come descriverebbe invece il suo stile? Ha un metodo rigido da rispettare o attende nel caos della vita un’ispirazione? Ce ne parli.
Se è vero che la scrittura è anche artigianato, il metodo Moravia è corretto, anzi, è l’unico praticabile e sensato. Io purtroppo devo scrivere quando posso. Tengo a mente, a volte anche a lungo, poi stendo col facile sollievo che, se dimentico, non è gran perdita e nessuno avrà a dolersene, neppure io stesso.
Di che cosa non può fare a meno mentre si accinge alla scrittura? Ha qualche curiosità o aneddoto da raccontarci a riguardo?
Non posso fare a meno di pensare che tutto quel dispendioso esercizio sul niente sia una dissennata detrazione a più serie attività. Ma poiché esse postulano impegno e dinamismo ancora maggiori, cedo senza condizioni alla violenza dell’ozio. Ogni volta che inizio a scrivere penso questo. Almeno mi pare.
Wilde si inchinò di fronte alla tomba di Keats a Roma, Marinetti desiderava “sputare” sull’altare dell’arte, qual è il suo rapporto con i grandi scrittori del passato? È cambiata nel tempo tale relazione?
Amo i libri che fanno male, che non hanno pietà e inattuali. Oggi leggo molto ma non molti libri. Ci sono libri che devo tenere in mano per mesi e poi riprenderli ancora e ancora, alcuni per sempre. Libri che occupano tutto lo spazio psichico e che difficilmente permettono di vivere altrove se non in essi.
Posso dire di amare soltanto pochissimi autori. Per gli altri provo al massimo una sincera ammirazione. Amore può significare emulazione, e il rapporto tra lo scrittore e le sue letture è per necessità anche un rapporto di derivazione. La letteratura greca e latina sono i “luoghi” di più alta formalizzazione letteraria che io conosca, ma consapevolmente non credo di aver tratto spunti specifici, dal punto di vista tematico, se non nella misura della ripetitività delle vicende umane, cioè narrabili. La mia idea della forma, invece, molto è stata influenzata dalle mie letture e dai maestri del passato.
L’avvento delle nuove tecnologie ha mutato i vecchi schemi di confronto fra centro e periferia, nonostante ciò esistono ancora luoghi italiani dove la letteratura e gli scrittori si concentrano? Un tempo c’erano Firenze o Venezia, Roma o Torino, qual è la sua idea in merito?
Le direzioni della cultura italiana sono sempre state centripete, almeno fino a una certa epoca, e hanno dato luogo a centri di civiltà rifulgenti, penso a quella senese o ferrarese o urbinate. Le cose poi sono cambiate, e la gravitazione attorno al potere ha assunto aspetti problematici, tuttavia gli scrittori e gli artisti, più genericamente, hanno mantenuto l’esigenza di confronto e di incontro.
Oggi vedo luoghi dove si concentrano le case editrici, questo sì, ma le nuove tecnologie hanno senza dubbio ampliato le possibilità di comunicazione e di affermazione degli artisti, per cui chi è periferico geograficamente può trovare seducenti opzioni per giocarsi le sue carte anche senza spostarsi.
Scrivere le ha migliorato o peggiorato il percorso di vita? In altre parole, crede che la letteratura le abbia fornito strumenti migliori per portare in atto i suoi desideri?
Lo scrittore non è un saggio né un profeta né un veggente né attraverso la scrittura egli può diventarlo. L’arte è sempre deludente. Descrivere un assassinio non è uccidere, descrivere una carezza non è amare, descrivere un’ala non è planare, descrivere la croce dove fu appeso e chiavellato e desciliato Cristo non è la croce dove fu appeso e chiavellato e desciliato Cristo, descrivere un’altra vita non è risorgere. L’arte è sempre deludente. Però è ciò che, per nativo stimolo, possiamo produrre, come i ragni la tela e i bruchi la seta.
La ringrazio e buona scrittura.
Grazie, altrettanto.
Andrea Melone nasce ad Alatri (FR) nel 1969. È laureato in filologia classica e insegna in un liceo. Dopo alcuni articoli in riviste specialistiche, pubblica il suo primo racconto, Il film, su Nuovi Argomenti, cui fa seguito, ancora su Nuovi Argomenti, il primo capitolo del romanzo Giardini di loto. Nel 2005 esce il suo primo libro, una raccolta di racconti, La verità sulla morte di Carla (Gaffi). Nello stesso anno è tra gli autori italiani chiamati a scrivere per i cento anni della CGIL e pubblica su Il Mese di Rassegna Sindacale il racconto I libri mai scritti di Gilberto, successivamente incluso nel volume Laboriosi oroscopi (AA.VV, Ediesse, 2006).
andreamelone19@libero.it
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