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“La sovrana lettrice” di Alan Bennett

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Di Anna Fioravanti

Alan Bennett scrive per il teatro ed il cinema. È autore di libri (vincitore del premio “Miglior Autore dell’Anno” nel 2006). È un inglese, brillante ed arguto, che racconta tante storie in una sola attraverso l’ironia. Niente, nei suoi libri, è come appare, perché la sua scrittura è come un prisma: tanti punti di vista, tante possibili chiavi di lettura.
È questo, per esempio, ciò che accade in La Sovrana Lettrice.

La Sovrana Lettrice - traduzione di Monica Pavani - è un libro di circa 100 pagine sulla Regina Elisabetta II: la incontriamo in un momento particolare della sua vita e trascorriamo con lei un periodo molto breve durante il quale “simpatizziamo” (per dirla con gli antichi Greci) con la sua solitudine e la forza del suo carattere; il suo coraggio e il destino che qualcun altro ha scelto per lei.

È felice la Regina? Forse no, non per l’immagine che ne viene data da Bennett, ma la lettura (rectius, la scoperta del piacere della lettura) sembra donare serenità ad un’esistenza piena di responsabilità e doveri istituzionali. Eppure, tutti coloro che vivono e lavorano con lei paiono in qualche modo ostacolare la sua nuova passione, forse spaventati all’idea che possa renderla meno “regina” e più “persona”.

Elisabetta II è solo una Sovrana? No, è anche una persona, una donna, una madre, una moglie: perché alcuni di questi ruoli sembrano esserle negati o, meglio, sembrano essere costretti entro certi limiti? La risposta è solo una delle possibili interpretazioni del titolo originale: The Uncommon Reader.

Uncommon è la persona non comune (nel bene e nel male), la persona speciale, la persona unica. Ma è anche la persona non appartenente alla classe sociale dei Commoners (che, per associazione di idee, mi fa pensare all’abolizione, nel 1834, della Poor Law), per intenderci quelli che un tempo sarebbero stati definiti ‘proletari’.

Uncommon è il modo attraverso il quale la protagonista sceglie i libri: lei, donna matura, Regina, si lascia consigliare da Norman, un giovane che lavora, per lei, nelle cucine di palazzo.
Lei, Regina, prende i libri in prestito da una biblioteca “pubblica”, mobile (quella di palazzo) alla quale hanno accesso tutti i suoi dipendenti.

Uncommon è la protagonista di questo libro: una Regina, anzi, nell’ottica di Bennett, LA Regina.

Uncommon è la lettrice: una persona non abituata a leggere, ma anche una che lo fa ‘a modo suo’. Per esempio, Elisabetta legge dalla prima all’ultima pagina, anche quando il romanzo che ha tra le mani non le piace, anzi, la annoia.

Uncommon è il lettore, generico, sconosciuto, forse immaginato durante la scrittura, che diventa persona, unica e speciale nel suo essere uncommon, dal momento in cui si aggira tra le pagine di questa avventura letteraria.

Se lascio andare la mente “uncommon” è molto altro, in generale ed anche rispetto alla storia che Bennett racconta. È proprio questo il motivo per il quale il titolo italiano non mi piace: si ferma ad un significato, quasi cercasse di limitare l’immaginazione del lettore. Eppure il lettore (in generale) e la lettrice, questa lettrice, sta cercando di lasciarsi andare, di permettere ai personaggi delle storie che legge di raccontare la loro storia, senza costrizioni, senza particolari aspettative di sorta.

Ci (si) riesce? Le cento pagine sono finite, e non ci è dato di sapere il resto. Per esempio, non sapremo mai se Elisabetta riuscirà a ri-leggere quegli stessi romanzi, o leggerne di nuovi, magari di nascosto. E tra le tante domande che si affollano nel cuore, prima che nella testa, di un qualsiasi lettore, sembra spuntare una certezza: i libri cambiano la vita di chi li possiede, anche solo per poche ore. I libri, le storie, aiutano a capire gli altri e permettono di entrare in mondi ‘altri’, speciali, unici, uncommon.

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