"Il palazzo della mezzanotte" di Carlos Ruiz Zafòn
Autore: Debora VagnoniLun, 17/05/2010 - 08:23
Di Debora Vagnoni
Carlos Ruiz Zafòn e "Il palazzo della mezzanotte" (traduzione di Bruno Arpaia, ediz. Mondadori)
A nove anni di distanza da “L’ombra del vento”, divenuto immediatamente un caso letterario, e tradotto in tutto il mondo, esce in Italia in questi giorni un romanzo risalente ai primi anni Novanta, che, come Zafòn spiega nella Prefazione, è un testo ormai svincolato da un vecchio contratto e quindi libero di essere dato alle stampe. Già dalla Prefazione, Zafòn si rivolge al lettore con i toni a lui consueti, coinvolgenti e persuasivi. Anche in questo romanzo il lettore può consumare l’illusione di essere lui il destinatario privilegiato e confidenziale della narrazione. L’iniziale “appello al lettore”, stratagemma letterario di straordinaria efficacia da Dante in poi, contribuisce a stringere il lettore in una confidenziale complicità con lo scrittore che permane nel corso di tutto il testo tramite l’artificio del doppio punto di vista. Zafòn recupera infatti anche in questo caso il ruolo del narratore di storie: storie che hanno innanzitutto lo scopo di divertire e intrattenere, perché per prime hanno intrattenuto e divertito chi le ha scritte. Questo aspetto apre così uno squarcio sul perché della narrazione e la scrittura per Zafòn, che inizia dalla narrazione per ragazzi per arrivare poi ad affascinare anche il pubblico adulto (vedi i precedenti romanzi, dal Principe delle nebbie a Marina).
La storia è ambientata nell’India del primo Novecento, in una Calcutta descritta topograficamente nella cifra interpretativa delle contrapposizioni: la Calcutta “bianca” e la Calcutta “nera”, la città sotterranea, misteriosa e ermetica che custodisce i misteri del passato, la città a cielo aperto, con i suoi abitanti che riversano nelle acque maleodoranti dei fiumi sacri, ma anche una Calcutta “gotica”, descritta con gli occhi dell’europeo.
In una notte del 1916, un ufficiale inglese porta in salvo due neonati, rimasti orfani, dalla furia omicida del loro persecutore, Jawahal, e li affida alle cure dell’anziana Aryami Bose, loro nonna materna, la quale non potrà fare a meno di separare i due gemelli, maschio e femmina, per nasconderne la vera identità.
Anni dopo, il gemello, cresciuto nell’orfanotrofio di S.Patrick e ormai adolescente, viene condotto insieme ai suoi compagni - da eventi al limite del soprannaturale - ad affrontare la sfida di scoprire il mistero che lega la sua famiglia ad un passato di persecuzione e magia. La storia è vista anche tramite gli occhi dell’adulto, il medico Ian che anni dopo racconta la vicenda come un punto di non ritorno nell’esperienza propria e dei propri compagni, che avranno poi nella vita ognuno un destino diverso. Questa figura può richiamare in parte il protagonista di Ritorno dall’India di Yehoshua, anche lui medico.
Lo stile di Zafòn affronta con disinvoltura e senza pregiudizi le grandi contrapposizioni tematiche, non ha paura di rivisitare antichi tòpoi letterari che in realtà crescono e maturano nell’immaginario collettivo. Di fondo, il macrotema che affascina lo scrittore e di conseguenza il lettore: l’animo infantile che si riversa nella coscienza adulta con il suo mondo di ricordi, misteri e grandi interrogativi che il più delle volte restano insoluti: le domande archetipiche sulla natura dell’essere umano, sulla contrapposizione bene/Male, sul passato e la scelta morale dei propri antenati.
Ad accompagnare questi temi, ci sono motivi simbolici costanti, come la casa: nel romanzo, Chandra, il padre dei due gemelli, ingegnere e scrittore, progetta la casa ideale nel cuore di Calcutta, realizzando in realtà una rivisitazione sincretica di stili europei, tra l’altro prettamente britannici, dall’edoardiano al vittoriano, come se il suo ideale di affrancamento della nuova India non riuscisse mai a liberarsi fino in fondo dalla corrotta Inghilterra. È altrettanto significativo che la serratura della sua casa si apra con un complesso meccanismo con quattro ruote di alfabeti diversi (greco, latino, arabo e sanscrito), la cultura fondativa del mondo; la biblioteca: è il motivo che in qualche modo anticipa il Cimitero dei Libri Dimenticati dell’Ombra del vento. Il circolo segreto, che ruota attorno ad edifici simbolicamente misteriosi (orfanotrofio, ferrovia, casa di Chandra) e ha come fulcro un antico casermone in rovina, dai ragazzi soprannominato appunto il Palazzo della Mezzanotte e in cui hanno luogo le riunioni della Chowbar Society (“…il club segreto e riservato a sette membri esclusivi che era stato il nostro rifugio durante gli anni dell’orfanotrofio. Lì eravamo cresciuti senz’altra famiglia che noi stessi e senza altri ricordi che le storie che ci raccontavamo a notte fonda…”, secondo il racconto della voce narrante). Infine, il contrasto innocenza/colpa che si incarna nel treno incendiato, carico di vittime innocenti, che nella memoria letteraria può ricordare simbolicamente il conflitto presente nel Lord Jim di Conrad, in cui il protagonista vede nella morte l’unica forma di riscatto al suo passato di incoscienza e di peccato.
Colpisce l’epilogo finale, in cui, nonostante il tempo della narrazione si dipani cronologicamente in un lungo fantasmagorico flash-back, la storia sembra ritornare su se stessa, nella figura del vero protagonista ormai adulto, persino invecchiato: Ben, il vero narratore di storie, l’ombra dello scrittore stesso.
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