Come si bacia la creatività secondo Marina Cvetaeva
Autore: Morgan PalmasMar, 04/05/2010 - 10:26
Di Morgan Palmas
Come si bacia la creatività è in Cvetaeva una questione esistenziale: “La condizione creativa è quella dell’ossessione. Finché non cominci – obsession, finché non finisci – possession. Qualcosa, qualcuno si insedia in te, la tua mano è solo strumento – non di te, di un altro. Di chi si tratta? Di ciò che attraverso te vuole essere.
Io sono sempre stata scelta dalle mie opere per la mia forza, e spesso le ho scritte quasi contro voglia. Tutte le mie opere più russe – in questo modo”.
E ancora: “La condizione creativa è quella del sogno, quando di colpo, ubbidendo a un’ignota necessità, dai fuoco a una casa o getti giù dall’alto di una montagna un amico. È tua l’azione? È chiaramente tua (giacché sei tu che dormi, tu che vedi in sogno!). Azione compiuta da te: dal te – completamente libero, dal te – senza coscienza, dal te – natura”.
“Non alle poesie (ai sogni) bisogna accludere la chiave: la poesia stessa è chiave per la comprensione di tutto. Ma dal comprendere all’accettare il passo non è uno solo – nessuno. Capire è accettare, non esiste nessun altro modo di capire, qualsiasi altro modo di capire, qualsiasi altro modo è incomprensione. Non a caso in francese comprendere significa insieme capire e abbracciare, com-prendere, cioè già accettare: con-tenere”.
Come si bacia la creatività è una forma di attaccamento al non rivelato: “Il poeta può pregare perché gli sia concessa una sola cosa: non comprendere l’inaccettabile: se non capisco, non mi lascerò sedurre; l’unica preghiera del poeta: non sentire le voci: se non sento, non risponderò. Giacché udire, per il poeta, è già rispondere, e rispondere – già affermare, non foss’altro che con la passionalità del suo rifiuto. L’unica preghiera del poeta: diventare sordo. Oppure: una scelta difficilissima in base alla qualità di ciò che ode, cioè un forzato otturarsi le orecchie a una serie di richiami, immancabilmente i più forti. L’innata facoltà di scelta – sentire soltanto l’essenziale – è una beatitudine concessa quasi a nessuno”.
“Non voglio servire da trampolino a idee altrui, da altoparlante a passioni altrui. Altrui? Esiste l’altrui per il poeta?”.
Aneddoto: “Quando mi trovo tra letterati, artisti, gente del genere… ho sempre l’impressione di trovarmi tra… intoxiqués”; risposta: “Sì, ma quando siete con un grande artista, con un grande poeta, non lo dite: al contrario sono tutti gli altri che vi sembreranno avvelenati”.
“L’arte non paga le sue vittime. Non le conosce neanche. L’operaio riceva la paga dal padrone, non dalla macchina. E può soltanto lasciare la macchina senza le mani che la fanno funzionare. Quanti ne ho visti, di poeti monchi! Con mani ormai perdute per qualsiasi altro lavoro”.
“Spesso si paragonano il poeta e il bambino in base alla loro innocenza. Io li paragonerei solo in base alla loro irresponsabilità. Irresponsabili in tutto, fuorché nel gioco.
Se entrerete in questo gioco con le vostre leggi umane (etiche) e di vita (sociali) lo rovinerete soltanto, e forse gli metterete fine”.
“Per tornare agli pseudopoeti.
Lo pseudopoeta. Il poeta. Vittima della letteratura. Vittima del demone. Entrambi perduti per Dio (per la causa, per il bene), ma, perdersi per perdersi, farlo almeno con onore, per cadere sotto un giogo più sublime.
I padroni, purtroppo, non si possono scegliere”.
Come si bacia un lato della medaglia all’altro: “E, alla fin fine:
«La lotta mi impedì di essere poeta»: Pasternak.
«La poesia mi impedì di lottare»: Majakovskij.
Giacché il punto di forza di Pasternak è nel poeta.
Quello di Majakovskij – nel lottare”.
[Testi tratti da “Il poeta e il tempo” di Marina Cvetaeva, Adelphi Edizioni, a cura di Serena Vitale]
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