"Vuoi star zitta per favore?" di Raymond Carver
Autore: Claudia VerardiVen, 02/04/2010 - 08:59
Di Claudia Verardi
La raccolta di racconti Vuoi star zitta per favore? di Raymond Carver ripubblicata per Einaudi (la prima volta venne pubblicata nel 1976) e magistralmente tradotta da Riccardo Duranti (traduttore storico di Carver) ci porta di nuovo a riflettere su uno tra gli autori più significativi del nostro tempo. Nato in Oregon da una famiglia di origini modeste, Raymond Carver, dopo una lunga gavetta, diede nuova vita al modo di narrare americano e venne subito indicato come il maestro della short story, oltre ad affermarsi come uno degli scrittori più amati e più letti del secondo Novecento. Ventidue racconti in questo primo libro di Carver, così tanti, e tutti perfetti nel loro aspetto, così levigati: è impossibile trovare anche una sola parola fuori posto. Un senso pesante di spavento aleggia in queste storie: gente che se l'è passata male, o che se la sta passando male; uomini che bevono troppo, mariti che fanno a botte con le mogli e mogli che lasciano i mariti. C'è morte, rovina, abbandono, gente sgradevole che si presenta alla porta di casa con ogni sorta di notizie sgradevoli. La vita è una cosa seria, in questi racconti. E qui non c'è altro che vita. Si può partire da questa analisi di Richard Ford – uno dei migliori scrittori americani, definito il “poeta del quotidiano” – per comprendere l’universo letterario di Raymond Carver.
Lo scrittore, attraverso il racconto breve e il metodo minimalista (che comprende, naturalmente, stili formali e di contenuto peculiari) intende indagare tra le pieghe più nascoste della realtà umana, soprattutto nelle situazioni e nei momenti legati ai normali eventi della vita quotidiana. In questo libro, racconti spiazzanti, crudi, socialmente laceranti trovano posto accanto a storie che scivolano via meno incisive e forti. Carver racconta l’America della sua generazione, quella delle ideologie sconfitte, con stile asciutto e immediato. L'inquietudine e le ansie lasciano spazio a momenti di sgomento, che in queste vite tormentate non manca mai. I personaggi dei racconti sono ben delineati e, anche se sono molto diversi tra loro, hanno qualcosa in comune: la consapevolezza di vivere un'esistenza molto difficile, talvolta quasi impossibile. Spesso gli atteggiamenti dei protagonisti delle storie di questa raccolta nascondono qualcosa di ostile, un’ombra, un comportamento che non sempre comprendiamo. Quella di Carver, molto probabilmente, è la realtà americana meno raccontata, ma forse è quella più vera. C’è l'America delle periferie, quella dei lavori precari, delle difficoltà e dei drammi familiari. I finali sono quasi sempre aperti, così come lo sono quelli della vita reale che – diciamo la verità – non ha sempre una morale o un messaggio da consegnare in una bottiglia.
Dopo aver letto Vuoi star zitta per favore? si ha una strana sensazione. Sembra di aver guardato delle foto di sconosciuti e sentirli estranei e distanti ma, in fondo, vicini. Spesso si leggono autori perché se ne parla, perché sono di moda, perché gli intellettuali li leggono e quindi, se li leggono loro, qualcosa di sensato dovranno pur dirlo. E Carver è uno di questi scrittori, però meno male che scrive belle storie. È una penna lirica, la sua, fedele a se stessa, profonda, accattivante. E, da linguista e traduttrice, mi interessa anche il codice linguistico usato dallo scrittore. Sentiamo questa dichiarazione: La lingua dei miei racconti è quella di cui la gente fa comunemente uso, ma al tempo stesso è una prosa che va sottoposta a un duro lavoro prima che risulti trasparente, cristallina. Questa non è una contraddizione in termini. Arrivo a sottoporre un racconto persino a quindici revisioni. A ogni revisione il racconto cambia. Ma non c'è nulla di automatico; si tratta piuttosto di un processo. Scrivere è un processo di rivelazione. Rivelazione, appunto. È questo che mi intriga, il processo di manifestazione, quella che Joyce chiamò epifania, la manifestazione di un ricordo, di un’immagine, di un’essenza mentale. Quella rivelazione necessaria a identificare momenti di intuizione improvvisa presenti nella mente di un personaggio, il momento in cui un'esperienza, infossata da anni nella memoria, ritorna a galla portando con sé dettagli ed emozioni. Vuoi star zitta per favore? è il libro che ha visto Raymond Carver finalista al National Book Award e lo consacra definitivamente nell’Olimpo dei Grandi. Le quotidiane disgrazie e gli inferni domestici che segnano il paesaggio americano alla deriva sono il sale di questi racconti brevi. Carver scrive storie che sprigionano tensione e minaccia e raccontano l’instabilità affettiva, oltre che economica, con una forza incredibile. La raccolta comprende storie bellissime come Grasso, Vicini, Creditori e Nessuno diceva niente, oltre al racconto che dà il titolo al libro e che venne portato al cinema nel 1993 da Robert Altman in America Oggi (Short Cuts). Sono storie che ti lasciano come sospeso, ma raccontare la realtà delle cose e le vicende di individui umili alle prese con i problemi e la confusione dell’America di provincia, quella stessa America di cui Carver faceva parte e che viveva ogni giorno di persona, nella sua quotidianità, è un lavoro difficile. Difficile ed estremamente brigoso. Queste vite, in apparenza condannate a una vita senza colore, rivelano attraverso la geniale narrazione una forza simbolica fino ad allora quasi sconosciuta. I ventidue racconti brevi del libro hanno come filo conduttore la difficoltà di vivere, il male profondo e, talvolta, camuffato, dell’umana esistenza. Vuoi star zitta, per favore? rivelò l'esordiente Raymond Carver, facendone l’esponente principale e, in seguito, fondamentale di quel genere letterario.
A popolare queste storie sono avventori di anonimi punti di ristoro, vicini di casa che si specchiano nelle reciproche solitudini spiando quello che accade nell'appartamento vicino, rappresentanti di commercio che cercano di vendere merce a chi invece cerca sentimenti, donne scontente, adulti immaturi, bambini soli.
Personaggi troppo veri, molto veri, così dannatamente veri da sembrare finti. Ogni storia racconta con sguardo impietoso e amaro momenti di quotidianità che si confondono con gli elementi della vita. Tradimenti, donne segnate dal tempo, vicini insopportabili, sconforto disperazione, delusioni e, purtroppo, spesso anche rassegnazione. Vita reale, lontana dalla favola del racconto fantasioso. Ed è proprio la vita il cardine attorno al quale girano e si intrecciano le storie.
Per il New York Times Book Review, i racconti di Carver stanno di merito fra i capolavori più grandi della letteratura americana. Carver racconta senza idealizzazioni e i suoi personaggi non si collocano in una dimensione eroica. Sono uomini spesso sbandati, incapaci di esprimersi e di ribellarsi a un sistema che non li rappresenta né li protegge, protagonisti intrappolati nell’impossibilità di esprimersi e ricorrono ad aiuti e surrogati come tic e ossessioni. Carver, comunque, rimane uno dei maggiori scrittori americani del Novecento. La sua scrittura morde da far male, è incisiva ma è anche liscia come una pietra corrosa dal mare. Grazie alla sua combinazione d’uso di tematiche e stili letterari è diventato un modello da studiare. Negli anni Ottanta, infatti, pubblicò un saggio formidabile sulla scrittura, Il mestiere di scrivere (Some Prose on Poetry, anch’esso magistralmente tradotto da Riccardo Duranti), una raccolta di esercizi, lezioni e saggi di scrittura creativa che hanno come tema la letteratura e il suo insegnamento. Carver, insieme a John Cheever, insegnò per tanti anni come imparare a scrivere. Dobbiamo molto a Raymond Carver come scrittore, come poeta, come intellettuale. Tra alienazioni e disincanto, tra uno sguardo sull’animo umano e uno sulle strutture sociali dell’epoca, ci ha regalato pagine intense, in qualche caso addirittura comiche e sensuali. Autore che ha seguito un suo percorso, senza rifarsi a schemi letterari precedenti e a categorie definite, ci teneva a non essere accostato agli scrittori postmoderni e si difendeva dall’etichetta di minimalista. Si sentiva vicino a pochi altri scrittori, forse a nessuno. Nemmeno a Ernest Hemingway. Se gli si chiedeva se ne avesse, in qualche modo, subito l’influenza, rispondeva che non lo aveva influenzato in modo particolare e che, comunque, lui non scriveva storie di pesca.
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