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Perché un libro di Tonino Guerra è un'altra cosa


di Michele Ruele

Ci sono due motivi per cui La valle del kamasutra di Tonino Guerra (Bompiani, marzo 2010) è un libro importante.

Uno è stilistico, l’altro è filosofico.


Lo stile.

Ho ripensato a un articolo di Vincenzo Consolo che ho letto tempo fa. Ci ho messo un po’ a ritrovarlo, ma poi da sotto la pila è uscito un numero di “Lettera internazionale” del 2006, in cui uno dei temi ha per titolo Che Italia è? La parola agli scrittori.

Consolo rifletteva sull’Italia presente e sosteneva che a partire dagli anni Sessanta ha imboccato una strada senza ritorno, ma ben definita anche nel suo percorso passato. La strada porta l’Italia a una condizione di miserevole ignoranza, e tale condizione si accompagna allo svuotamento della lingua standard, al livellamento dello stile di una forma espressiva che perde tutte le sue differenze individuali, locali, di registro:

«Sempre più piccolo borghese, consumistico, fascistico, il paese, telestupefatto, ha perso ogni cognizione di cultura e di lingua. Ha perso ogni memoria di sé, della sua storia, della sua identità. L’italiano è diventato un’orrenda lingua, un balbettio invaso dai linguaggi mediatici che non esprime altro che merce e consumo. Su questo terreno trova coltura e vigore un cespuglio di scrittori furbastri, personaggi mediatici prima che scrittori, che coi loro romanzi polizieschi, comico-grotteschi, bozzettistica intrattengono e dilettano i “nuovi” lettori.»


A partire dagli anni Sessanta, quando Pasolini esprimeva tale mutazione e la denunciava a chiare lettere, con i suoi toni profetici.

«Ancor prima della “scomparsa delle lucciole” – scrive Consolo – già nel 1964, Pasolini aveva visto (in Nuove questioni linguistiche) la scomparsa delle tante lingue italiane, di cui aveva parlato anche Leopardi, e l’avvento di un’unica lingua (che non era certo paragonabile all’illuministica, geometrizzata, unica lingua francese), lingua che s’imponeva per la prima volta come lingua nazionale. Era, questa, imposta dalla tecnologia, dall’aziendalismo, dai mezzi di comunicazione di massa (giornali, radio, televisione), dalla politica; lingua come “omologatrice di altre stratificazioni linguistiche e addirittura come modificatrice all’interno dei linguaggi”. Portava a esempio di questa nuova, unica lingua italiana un brano di un discorso pronunciato da Aldo Moro – “colui che appare – dirà più tardi – il meno implicato di tutti nelle cose orribili che sono state organizzate dal 1969 a oggi” – nel momento significativo dell’inaugurazione dell’Autostrada del Sole. Recitava il brano: “La produttività degli investimenti del piano autostradale dipende dunque dal loro coordinamento in una programmazione delle infrastrutture di trasporto, che tenda a risolvere gli squilibri, ad eliminare le strozzature, a ridurre gli sperperi della concorrenza fra i diversi mezzi di trasporto, a dare vita insomma a un sistema integrato su scala nazionale”».


Che cos’è successo insomma negli ultimi cinquant’anni? Che la discesa è stata sempre più vertiginosa, verso un’Italia

«alienata, oscenamente involgarita, la mostruosa Italia del sonno della ragione e dell’oblio della poesia, il paese fra gli ultimi in Europa nella lettura dei libri, l’Italia ormai cava, spoglia e passiva, ignorante e afasica, la prima, crediamo, la più adatta a entrare trionfalmente nella Gran Bottega del Mondo, nella globalizzazione delle merci e dei consumi».


La letteratura nazionale e la sua lingua hanno seguito la parabola della cultura e dello spirito nazionale, e hanno contenuto (e contengono tutt’oggi) uno spirito vario popolare ingenuo e uno spirito omogeneo elitario artificiale. La grandezza può scaturire dall’equilibrio fra tali due anime: il problema sorge drammatico quando l’omogeneità soffoca la varietà. Ed è una storia molto vecchia, lo sanno bene i linguisti. Anche il primo linguista italiana, Dante: «Chiamiamo volgare – scriveva nel De vulgari eloquentia – quella lingua che i bambini imparano a usare da chi li circonda quando cominciano a articolare i suoni… Abbiamo poi una lingua di secondo grado, che i Romani chiamarono “grammatic” (lingua letteraria regolata)»; poi concludeva Dante: «Horum quaque duarum nobilior est vulgaris», ovvero: di queste due la più nobile è il volgare.


Tutta la vicenda letteraria italiana, dice Consolo, è un’altalena di accettazione e rifiuto del modello regolato (fissato in particolare sui modelli canonizzati, a partire da quello rinascimentale di Petrarca e Boccaccio, e in second’ordine Dante stesso).

Oggi, alla miseria culturale e politica, fa riscontro la miseria dello svuotamento di una lingua regolata senza contromisure e governata dall’ignoranza. Una lingua che non conosce varietà e sfumature, senza matrici. Una lingua in cui non conta tanto ciò che non puoi dire (in realtà la “libertà d’espressione” intesa come possibilità di avere voce non pare così messa male) ma il fatto che devi dire quello che vogliono gli altri.


Ecco dunque perché La valle del Kamasutra di Tonino Guerra è un libro importante. Guerra non è certo l’unico a stare dalla parte delle matrici locali, memoriali, dialettali, insomma umane e per molti versi umanistiche, altri scrittori che lavorano nella differenza ce ne sono molti: ma la sensazione è che si viva in riserva e che Pasolini avesse molte ragioni dalla sua parte, e Consolo non ne abbia di meno nella sua visione apocalittica.

Non è che si coltivi l’illusione che si possa tornare al tempo in cui c’erano le lucciole. Ma non si può lasciare niente al loro posto, almeno.


Il libro è l’occasione per rileggere e rivedere alcune delle cose più importanti di Tonino Guerra: racconti, poesie in italiano e in romagnolo, interviste (magistrale quella a Tarkovskij, inedita). Eccome se ci sono le sfumature. E niente a che fare con il mercato, le strategie editoriali, i casi dell’anno, i premi. Nato nel 1920, Guerra compie 90 anni, questo è un omaggio che lo celebra sì, ma che contribuisce anche alla sua conoscenza, almeno in parte, se bastano un breve biografia e gli apparati bibliografici e cinematografici.

Ci si chiede perché manchi una edizione delle opere alla maniera dei Meridiani.


L’altro motivo, si diceva all’inizio, è filosofico.


Ho ripensato ad alcuni articoli e saggi che apparvero abbastanza a ridosso della pubblicazione di quel formidabile libro che è Le città invisibili di Italo Calvino. I primi interpreti – Mengaldo, Citati, Mainardi – ancora a caldo insistettero proprio sulla chiave filosofica. Citati sosteneva che i due libri italiani che testimoniano la filosofia del Novecento italiano sono la Cognizione del dolore di Gadda e appunto Le città invisibili.

Il polverone del 1978 è all’altezza delle Città invisibili e di Palomar.

«Nella Valle dei Crateri una o due volte ogni cent’anni c’è un vento che si chiama il Polverone che sale dal fondo della terra lungo gli imbuti asciutti dei crateri e per tre giorni come le lingue dei gatti che raspano, lecca le case e le facce degli abitanti di quella zona. E allora succede che tutti perdono la memoria e i figli non riconoscono i padri, le mogli i mariti, le ragazze i fidanzati, i bambini i genitori e tutto diventa un caos di sentimenti nuovi.

Poi cessa il vento risucchiato dentro i crateri e lentamente ogni cosa torna come prima e nessuno ricorda quello che è successo nei tre giorni del Polverone».

Scriveva Calvino a Guerra, nel 1978:

«Caro Tonino, ho letto Il polverone con gran piacere. Il clima calmo e rarefatto mi pare un risultato bellissimo. Alberi e uccelli creano intorno uno speciale spazio e tempo che c’è in tutti i racconti, anche in quelli senza alberi né uccelli. Mi piacciono molto anche i pezzi più brevi di notazione psicologica tipo ‘La ballerina russa’ o ‘Mai direttamente’. La continuità oriente favoloso – paese natio funziona perfettamente, e il racconto tuo più autobiografico è quello giapponese delle neve e del riso. Mentre il più ‘giapponese’ è ‘Il frullo del passero’. Belli anche i due racconti degli eunuchi cinesi. Belle tutte le poesie: quella che mi piace di più è ‘La dmènga specialmènt’».


Alla fine mi sembra un avanguardista questo vecchio poeta relegato nella valle del Marecchia con i suoi sogni le sue parole e i suoi segni, le sue matrici e le sue fantasie nebbiose e marine, con questo suo libro estremo giocato sull’estrema sfida dello stile, fatto di poesia e disegni, lettere e racconti, dialetto e lingua letteraria, filosofia e deliri onirici, diari e aforismi, interviste e articoli.

Un titolo in mezzo agli altri: Guida essenziale ai luoghi dell’anima ideati da Tonino Guerra nella terra tra Romagna e Marche che ha nutrito la sua creatività poetica.

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