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Oscar Wilde e l’inchino a John Keats

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Di Morgan Palmas

Oscar Wilde si trovava nell’aprile del 1877 lontano dalla sua Oxford, dove si era immatricolato appena ventenne il 17 ottobre del 1874, dopo avere ottenuto un risultato strabiliante negli esami di ammissione, ça va sans dire primo in graduatoria. Il Trinity College di Dublino, università che lo aveva precedentemente accolto riconoscendogli un talento singolare negli studi classici, era oramai un ricordo vago.
Wilde viveva da tempo una condizione precaria nell’anima, gli studi procedevano nel migliore dei modi, ma la tensione religiosa verso il cattolicesimo lo inquietava e appassionava. Un viaggio in Italia nel 1875 era sembrato un presagio sicuro, la fede e l’amore si abbracciavano in lui attraverso un vigore che non poteva lasciarlo indifferente. Inoltre, la morte del padre il 19 aprile 1876 aveva sconvolto le sue già fragili sicurezze, si sarebbero presentati presto anche problemi di natura finanziaria.

“La sofferenza è permanente, oscura e cupa ed è della stessa natura dell’infinito”
[De Profundis]

Le vacanze di primavera del 1877 rappresentavano l’occasione giusta per ritrovare se medesimo; grazie a una giocata fortunata di Hunter Blair (in tutta probabilità inventata ad hoc per aiutare l’amico senza denari), sessanta sterline permisero ad Oscar Wilde di recarsi nell’Europa mediterranea, convinto che la città eterna fosse il luogo dove riflettere con calma. Alcuni amici non volevano assistere a una possibile conversione al cattolicesimo e così lo persuasero che la Grecia era la destinazione prediletta. Wilde accettò, ma sicuro che prima di ritornare a Oxford sarebbe passato per Roma. L’unica preoccupazione era l’eventuale ritardo nella ripresa delle lezioni all’università, nonostante il professor Mahaffy potesse intercedere, il quale, con un nutrito gruppo di studenti, si era messo a disposizione per la visita in Grecia.

“Il pensiero e il linguaggio sono per l’artista gli strumenti dell’arte. Il vizio e la virtù sono per l’artista materia d’arte”
[Prefazione a “Il ritratto di Dorian Gray”]

Wilde ebbe la fortuna, grazie alla fama di Mahaffy, di osservare da vicino i tesori da poco scoperti da Schliemann. Intanto era giunto il 21 aprile, mentre l’inizio del nuovo trimestre universitario diciassette giorni prima. Il giovane artista aveva chiesto una licenza di dieci giorni, già stracciata abbondantemente. Il dean del college, Bramley, fu categorico, uno dei migliori studenti non poteva permettersi un simile comportamento, oltre al fatto che era già nell’aria una possibile conversione al cattolicesimo, intollerabile per un anglicano che si spendeva da anni nell’educazione della élite ossoniana. La punizione fu esemplare: espulso dalla residenza nel college per il trimestre di Pasqua e della Trinità, e per sei mesi, fino al giorno di San Michele, non sarebbero stati elargiti gli emolumenti che la Demyship garantiva (una borsa di studio). A distanza di tempo Wilde dichiarò sarcastico: “Mi espulsero da Oxford perché ero il primo studente che avesse visitato Olimpia”.
Prima di scoprire la decisione del dean, Wilde si era recato a Roma e il caro amico Hunter Blair, il quale si era convertito al cattolicesimo due anni prima, desiderava organizzargli un incontro con il papa. Le recenti vicende italiane del 1870 avevano attirato le simpatie del giovane nei confronti di Pio IX, definito in una sua poesia “pastore prigioniero della chiesa di Dio”. Avvenne così l’udienza privata e il papa manifestò la speranza che anche lui seguisse il condiscipulus, abbandonando di fatto l’anglicanesimo.
L’emozione fu forte, Wilde scrisse di getto una poesia, probabilmente “Urbs Sacra Aeterna”, poi inviata direttamente al papa; invece l’amico Blair pensò di spedirla al direttore di “The Month”, nel settembre del medesimo anno quei versi comparirono nella rivista con il titolo italiano “Graffiti d’Italia”.

A Roma Wilde visitò anche San Paolo Fuori le Mura e pretese di scendere dalla carrozza per recarsi al cimitero protestante, dove, davanti alla tomba di Keats, si genuflesse con profondità, in una maniera più umile rispetto al precedente inchino rivolto al papa (il comportamento non mancò di irritare l’amico Blair, il quale sosteneva che Wilde fosse confuso nei rapporti fra estetica e religione). Scrisse una poesia per dichiarare tale luogo “il più sacro di Roma” e aggiunse: “Accanto alla modesta tomba di questo divino fanciullo, pensai a lui come a un Sacerdote della Bellezza ucciso prima del tempo; e mi si presentò dinnanzi agli occhi l’immagine del San Sebastiano di Guido che avevo visto a Genova, un bel ragazzo bruno, con folti capelli ricciuti e labbra rosse, legato a un albero da nemici malvagi e, benché trafitto da frecce, gli occhi levati in uno sguardo divino, appassionato, rivolti alla Bellezza Eterna dei Paradisi che gli si aprivano innanzi”.

[Consiglio la lettura di “Oscar Wilde” di Richard Ellman, traduzione a cura di Ettore Capriolo, pag.780, edizioni Mondadori, dal quale è stata tratta la gran parte delle informazioni per la stesura di questo articolo]
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