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“L’arte di leggere la poesia” di Harold Bloom


di Alessandro Puglisi


Difficile da valutare, questo “libello”, uscito molto di recente per i tipi di Rizzoli, con traduzione di Roberta Zuppet. The Art of Reading Poetry (questo il titolo originale) era l’introduzione a The Best Poems of the English Language, antologia da Bloom curata nel 2004, in seguito ripubblicata in versione “stand-alone” da HarperCollins.

Sicuramente arduo è anche offrire un giudizio sul suo autore, controverso esponente della contemporanea critica letteraria, che più di una volta si è distinto, nel bene o nel male, per le sue affermazioni taglienti e i giudizi senza appello.


Harold Bloom, classe ’30, nato a New York, autore di un gran numero di pubblicazioni, spazianti da Blake alla Kabbalah, dalla religione in America alla critica poetica, è anche padre del fondamentale (ma discusso) The Western Canon: The Books and School of the Ages, uscito per la prima volta nel nostro paese per Bompiani nel 1996, col titolo Il canone occidentale e, tra l’altro, riedito nel 2008 da Rizzoli, con introduzione di Andrea Cortellessa; opera in cui Bloom presenta (o ri-presenta) ventisei autori da porre come fondamenta dell’impianto letterario occidentale. Canone al vertice del quale sta Shakespeare, e al cui interno vengono inclusi anche diversi italiani, fra i quali Luigi Pirandello, Eugenio Montale, Elio Vittorini e finanche Tommaso Landolfi.

Ma torniamo all’oggetto principale: L’arte di leggere la poesia si presenta come una scorrevole dissertazione, suddivisa in otto brevi capitoli che, partendo dalla natura di «linguaggio figurato» della poesia, dopo una veloce (forse troppo) puntata sull’importanza dell’etimologia nel contesto della «figuratività» poetica, giunge alla considerazione, condotta con piglio “leggero”, da “lettore appassionato”, di alcune tra le pagine più importanti della letteratura inglese e americana (notevole, seppur stringata, la rivalutazione del senso della celebre “blackened street” (strada annerita) di Eliot). Dalle pagine di Bloom emerge una grande e autentica passione per il “consumo letterario”, non disgiunto, comunque, dall’esigenza di cogliere un senso più alto o, per dirla con Walter Pater, citato anche da Bloom stesso, dalla necessità di evidenziare «i contorni più sottili delle parole».


Il problema maggiore dello scritto del critico americano, credo stia nella caratteristica, tuttavia precipua data la natura originaria di “introduzione” a un’opera ampia e articolata, di suggerire un ampio ventaglio di tematiche legate, almeno, alla critica, alla poesia e alla ricezione di essa, senza però pervenire al fuoco delle questioni, le quali dunque finiscono per rimanere frutto ed espressione di una speculazione piacevole, ma superficiale.


La domanda che è necessario porsi sarebbe, fatte queste dovute considerazioni, dunque: ha “senso” la pubblicazione autonoma di un'introduzione, seppur corredata da una bibliografia, a dir la verità piuttosto smilza, e da una serie di “Letture consigliate”, quando l’introduzione di cui sopra dovrebbe appunto avere semplicemente la funzione di "porta d’accesso" a qualcosa d’altro?

La domanda ci sembra più che lecita.


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