L’amore ai tempi di Batman
Autore: AnonimoMar, 13/04/2010 - 10:54
Di Giovanni Ragonesi
Nell’inverno del 1927, a Cambridge, un brillante e antiaccademico Edward Morgan Forster, davanti a una platea alquanto sorpresa, chiacchierava di aspetti del romanzo. Parlando dei personaggi narrativi, da lui chiamati “Homo Fictus”, si trovò a constatare “quanto l’amore giganteggi nei romanzi, e sarete forse d’accordo con me nel ritenere che li danneggia e li rende monotoni. Perché mai codesta particolare esperienza, specie nella sua forma sessuale, è stata trapiantata nel romanzo in doti così generose? Se pensate superficialmente a un romanzo, pensate subito all’interesse amoroso: un uomo e una donna che desiderano unirsi e chissà che non vi riescano. Se pensate superficialmente alla vostra esistenza, o a un gruppo di esistenze, ve ne rimane un’impressione alquanto diversa e ben più complessa.”
Per Forster questa insistenza sulla questione amorosa da parte dei romanzieri ha una spiegazione “tecnica”: “L’amore, come la morte, è congeniale al romanziere perché gli consente di terminare comodamente il suo libro.”
Ogni storia narrata necessita di una conclusione, ma non di una conclusione qualsiasi, il finale deve essere presentato come definitivo. Tutti i rapporti umani sono instabili, perché incostanti sono gli esseri che ne partecipano, ma in relazione all’amore vige l’illusione che esso sia eterno. Il lettore è ben disposto ad accantonare l’amara consapevolezza dell’esperienza propria e altrui e si dispone ad attendere un avvenimento che porti a un mutamento definitivo, una situazione che permanga stabile nel suo stato di grazia al di fuori del tempo.
L’illusione di una eterna ed estatica unione amorosa è il patto che il lettore e il romanziere hanno sottoscritto per secoli per poter continuare ciascuno nella propria attività.
Se ad esempio, io lettore, mi sottraggo a questo patto, non riuscirò a considerare concluso nessuno dei romanzi di Jane Austen (insieme a tanti altri ovviamente). Elisabeth Bennet sposa D’Arcy, Emma Woodhouse Mr. Knightley, Catherine Morland Henry Tilney, Fanny Price Edmund Bertram... e anche Elinor Dashwood e Anne Eliot avranno modo di non invecchiare da zitelle.
Insomma solo matrimoni a conclusione di ciascuno dei sei romanzi di zia Jane. Se però mi sottraggo al patto, tutto crolla. So benissimo che la vita di Fanny e Edmund sarà di una noia assoluta e inenarrabile e che a loro confronto anche i miei zii sono dei gran viveur. Elisabeth presto ne avrà le scatole piene della compostezza altezzosa di D’Arcy e magari si sollazzerà con un guardiacaccia di Pemberley; mentre Emma, più audace, proporrà al marito di fare coppia aperta; Catherine, invece, piangerà spesso nascondendosi sotto il cuscino e penserà che nei romanzi la vita è più interessante che nella realtà.
Credo possa essere di una qualche forma di interesse notare come l’espediente amoroso abbia perso la sua carica simbolica all’interno della narrativa contemporanea. Già negli anni ’50 il nostro Albero Moravia dichiarava assertivo che quello che una volta era amore oggi è sesso. Da allora le cose non sembrano essere cambiate, se non nella consapevolezza, a tratti rattristata a tratti divertita, che tale affermazione corrisponde a un reale e diffuso sentire e soprattutto che il sesso, da una prospettiva letteraria, lascia troppo a desiderare e che da un punto di vista simbolico o allegorico non consente quella apertura di prospettive di cui la narrativa ha bisogno: un po’ come dire che se una rosa è una rosa è una rosa, per traslazione del concetto, un pompino è un pompino è un pompino. Nulla di più; e per carità, nulla di meno.
La narrativa con ambizioni medio alte sembra quindi approdata a una tendenza condivisa che delega le sfere cosiddette “sentimentali” all’intrattenimento, e questo alla narrativa di genere.
Eppure le cose sono cambiate ed è opportuno, o quantomeno potrebbe esserlo, prendere atto di come la società contemporanea nelle sue modalità relazionali abbia sviluppato un approccio nuovo e per molti aspetti inedito.
Sino ad adesso la grande narrativa ha preso coscienza, non di rado anticipandone i temi, dei cambiamenti epocali in corso negli ultimi venti o trenta anni: temi che vanno dalla frantumazione dell’identità precostituita alla trasformazione genetica del concetto di potere, dalle mutazioni transnazionali alle scissioni degli io monologanti, dai conflitti interiori a quelli dibattuti sui monitor del Pentagono, dall’invecchiamento in un’epoca di giovanilismo oltranzista alla polverizzazione di qualsiasi ideologia vagamente intellettuale, dal primato del nichilismo a quello della ricerca fiduciosa di un centro di gravità temporaneamente permanente, il tutto senza dimenticare il repechage negli anni ’80, oramai in declino nelle scene musicali e sulle passerelle, ma fresco e fertile in campo narrativo.
Per quanto invece riguarda le relazioni umane l’interesse si è per un po’ concentrato sulle nuove possibilità combinatorie, tralasciando di considerare che il cambiamento che stiamo vivendo, pur nella sua supposta banalità, è di quelli che stravolgono il paesaggio e la fibrosità del miocardio.
Il cambiamento di cui cerchiamo di parlare è stato oggetto di diverse trattazioni saggistiche. Negli studi di psicologia, sempre detentori di una idea forte di equilibrio e sanità, è affrontato come regressione a una fase adolescenziale inalterabile che rende assai lunga ed estenuante l’attesa di un approdo alla maturità emotiva della fase adulta.
Il tentativo più affascinante, malgrado – o forse proprio grazie – alla sua asistematicità, è stato quello di Zygmunt Bauman che già nel 2003 ha iniziato a parlare, ampliando la sua celebre impostazione di pensiero interpretativo, di “Amore liquido”, vale a dire una modalità relazionale che segue a un cambiamento epocale in cui l’uomo contemporaneo, abbandonata qualsiasi pretesa di solidità, risolve il proprio ambito emotivo in una serie di relazioni-connessioni che non hanno più né la pretesa né la speranza di portare avanti una progettualità condivisa oramai inesorabilmente fuori dal tempo. Lo sforzo e l’obiettivo sono proprio concentrati nel creare connessioni che seguono il modello delle connessioni in rete in cui si entra e si esce con la facilità dettata dalla legittimità – insindacabile – dell’esigenza momentanea.
A ben vedere proprio questo modello relazionale oramai la fa da padrone proprio da diversi anni nell’ambito narrativo in cui le trattazioni sentimentali sono state relegate, vale a dire nella letteratura di genere, cioè quella una volta conosciuta come ‘narrativa rosa’ e che invece oggi è un po’ qualcos’altro sebbene continui a dividere gli scaffali delle librerie con Liala.
Il modello delle relazioni-connesioni ha preso il posto degli amori evergreen, Gucci è entrato in scena al posto delle sartorie di città, s’è scoperto che una certa forma di cinismo è più divertente che ascoltare la radio con le cugine e che un vodka-Martini si sorseggia più piacevolmente di una tazza di tè: ecco pronti gli ingredienti di contorno della nuova narrativa rosa che ha tra gli esemplari più illustri e divertenti, nonché forse capostipiti, Candance Bushnell con le sue scorribande predatorie su sfondo metropolitano, e Gaby Hauptmann con i suoi alberghi deluxe e stalloni ritemprati dopo essersi fermati a colazione.
Come lo stesso Bauman nota nella sua trattazione, non solo certa narrativa, ma anche la tv delle soap opera (la sua concentrazione è sul programma EastEnders) ha registrato e sfruttato la mutazione antropologica delle relazioni.
Quello che probabilmente manca è un’attenzione maggiore della narrativa che per comodità definiamo Alta, quella che in genere evita di appiattirsi sui meccanismi di alto consumo e di genuflettersi alle ideologie preconfezionate, che non ha ancora messo in scena e dato voce in maniera incisiva all’amore liqueforme dei nostri giorni, quantomeno non con una consapevolezza forte, forse timorosa di compromettersi con un argomento che sembra, nella considerazione comune, avere perso la sua carica drammaturgica.
Non che questa attenzione sia del tutto assente. C’è difatti più di qualche romanzo che ha di recente concentrato il proprio plot sul nostro argomento. Uno su tutti, a mo’ di esempio, il sorprendente e prepotentemente riuscito terzo romanzo di Marco Mancassola, La vita erotica dei superuomini. Lungo le oltre 500 pagine del corposo (e cartaceamente cotonato) romanzo, si sviluppano le vicende erotico-sentimentali (in un mix delicato e spietato e inseparabile di dipendenza emotivo-corporea) di 4 super eroi direttamente assoldati dalle pagine dei fumetti: Mister Fantastic, Batman, Mystique ed epilogo con Superman.
La scelta azzardata dei protagonisti non avrebbe potuto essere più riuscita, proprio per via della loro valenza simbolica nell’immaginario pop e per via della chiave narrativa intimista allestita all’interno di un quasi thriller che ce li rende, per la prima volta, eroi dal volto e dal corpo umano. Corpi tridimensionali che soffrono e desiderano, tesi in uno sforzo muscolare ed esistenziale di ricollocamento nel reale, un reale dove sembra non esserci più spazio, dove non sembra più esserci uno scopo e dove lo sforzo erotico-sentimentale consuma nella maniera più definitiva possibile richiudendosi nell’archetipico Thanatos.
La complessità del sentire dei supereroi evita qualsiasi scivolata nella lingua e nel territorio dell’abusato patetismo emotivo. Ogni accadimento, ogni pensiero, ogni colpo di scena, non fanno altro che amplificare la sensazione, pulsante, che questi supereroi, decaduti dentro la loro mitologia e sin troppo umani nel loro guardare in faccia il lettore, stiano parlando per noi. Ed è molto singolare, oltre che rivelatore di un vuoto estremo e di una estrema tendenza alla traslazione, constatare come la complessità erotico-emotiva di questi anni possa essere messa in scena dalla umanizzazione delle icone del fumetto che, alla larga dai clichè, sembrano farsi carico di una rimozione collettiva e dire ancora qualcosa.
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